La presente ricerca ha preso in esame le prime fondazioni orsoline milanesi all’epoca di Carlo Borromeo e quindi la loro diffusione nell’area ‘lombarda’ e segnatamente comasca, all’epoca zona di confine molto delicata con il mondo protestante. Essa ha cercato di valutare le modalità con le quali il primo Borromeo ha guardato a queste comunità femminili autonome e libere, sottolineando come, se da un lato il suo intervento milanese abbia modificato e in qualche modo anche ‘tradito’ l’originario carisma mericiano, dall’altro, però, egli abbia anche consentito alle Vergini di sant’Orsola di salvaguardarlo nella sostanza se non nella forma, inserendo la Compagnia milanese in un vasto ed organico progetto educativo tutto svolto ‘al femminile’.
Gli studi in ambiente milanese hanno poi consentito di meglio valutare, sulla lunga distanza, la persistente fedeltà alla intuizione di sant’Angela delle sue Figlie caroline, la loro tenace capacità di operare nel mondo e di apparire insieme vere ‘monache’, dal punto di vista della serietà della loro vocazione, e vere ‘laiche’ quanto al loro operare. Su questo punto, i documenti settecenteschi hanno aperto interessantissimi spiragli sulle ricadute concrete di tale ‘laicità’.
La zona comasca, terra di confine come si è detto, e terra dunque anche di latenti o aperti conflitti, e l’evoluzione delle fondazioni orsoline ‘ticinesi’ come grigione hanno ulteriormente confermato, in situazioni disagiate e difficili, la elasticità del mondo orsolino e la sua profonda essenza ‘missionaria’ in contesti assai problematici.
Il primo rilievo che mi si impone è che questo testo è da considerarsi una sorta di work in progress. Mi occuperò, come si vedrà, solo della Compagnia nella sua versione “carolina”: un passaggio però di estrema importanza per capire l’evoluzione di questo vero “universo” religioso. Su questo versante, credo ci siano innanzitutto dei “miti” e dei pregiudizi da rivedere.
Un primo aspetto da valutare con attenzione è dato, infatti, da un contesto sociale, non soltanto milanese per la verità, nel quale possiamo rimarcare un forte disagio femminile. Nella Milano di metà secolo, per esempio, oltre alla collocazione nei numerosi monasteri cittadini - una quarantina - e oltre al ben noto cenacolo della Torelli, esistevano sicuramente numerose donne che, pur restando a tutti gli effetti laiche, seguivano una loro regola privata, diventando sovente “figlie spirituali” degli istituti religiosi cittadini, o chiedendo di vivere in monastero, pur non prendendo i voti. Ma la medesima situazione troviamo, nei riscontri epistolari del Borromeo, a Verona, a Bologna e, come si dirà, anche nella stessa Brescia. Tanto da diventare un vero problema “pastorale” per i rispettivi vescovi. Si trattava di donne povere e dunque incapaci di versare una dote, non solo matrimoniale, ma anche spirituale? È possibile e anzi, come vedremo, molto probabile: ma non ne sappiamo in verità molto. La risposta rimane dunque forzatamente sospesa. Ma torneremo più in là su questo punto. Certo, il problema esisteva a Milano sin dall’arrivo in città del nuovo vescovo, se nel marzo del 1566 già l’Ormaneto tranquillizzava il suo superiore circa il reperimento di un «seminario delle donne giovani».
Un primo rilievo è dunque il seguente: cosa fare di queste donne senza un tutore maschile di sorta - padre, marito, padre spirituale -, dunque “sole” in un “mondo” che non concepiva questo status se non come pericoloso, o addirittura in sé negativo perché indice probabile di una “cattiva” vita? E alle “zitelle” si aggiungevano anche le vedove. Anche questo un tema sul quale, nella Milano del primo Borromeo, si rifletterà a lungo all’interno del gruppo di collaboratori e sodali del cardinale. Vale la pena di citare quanto emerge da questo “discernere insieme” e che possiamo leggere nelle pagine, per esempio, che Agostino Valier dedicò alle vedove. Sposarsi è certamente un “compito” sociale importante; farlo una seconda volta è però sconsigliato. E questo perché la «vedova vera è una serva di Dio» che «liberata dal vincolo del matrimonio … ha posto i suoi pensieri in piacere a Dio». Così, la “vera e perfetta” vedova sarà una sorta di “consacrata” nel mondo: per lo stile di vita, per il modo di vestirsi e comportarsi, per la riservatezza e l’umiltà che la contraddistinguerà. È ben evidente che il “modello ideale” è quello religioso. Tuttavia, pur riconoscendo che non farà certo male monacandosi, Valier sottolineerà con forza che «le donne vedove sono molto utili al mondo». Infatti, potranno, nel secolo, porsi come «maestre della vera disciplina di Cristo, moderatrici de’ costumi delle case, ed esemplari colla loro vita alle vergini, e alle maritate ancora, consolatrici nelle avversità, prudenti consigliatrici nelle prosperità; eccitatrici alla santa orazione, alla frequenza de’ santissimi sacramenti, e a tutti i buoni istituti; consultrici finalmente, e basi fortissime della concordia, e della pace non solo nelle case, ma nelle contrade».
Nella sostanza, dunque, Valier, e con lui e anzi prima di lui Borromeo, era perfettamente in grado di intuire il valore di un esempio del tutto laico di donne consacrate ma nella società, e per questo capaci di svolgere dal suo interno una testimonianza molto convincente nell’ambito delle stesse loro famiglie, divenendo esempio di come fosse possibile «morire al mondo, e cominciar in questa vita a conversar con Dio». Questo diceva Valier; in questo modello, come vedremo, aveva creduto san Carlo; ma il medesimo esempio proponeva quella Regola di vita del vescovo, attribuita al Paleotti che troviamo letta e annotata nello studiolo del Borromeo e nella quale si suggeriva di «fare una congregatione delle vedove nobili» e dare «alcune regole allo stato loro convenienti, e all’opere alle quali dovrebbero attendere, massimamente con l’aiutare altre gentildonne nelle cose spirituali». E non suggeriva forse lo stesso stile anche Francesco di Sales nella sua Vita devota? Se dietro a tale ragionamento stesse anche la preoccupazione delle famiglie più ricche circa i problemi patrimoniali legati alla restituzione delle doti non sappiamo, anche se sarebbe davvero interessante indagare e cercare una possibile spiegazione tutta “laica” a questa singolare tendenza.
Possiamo tornare al punto di partenza. I collaboratori del giovanissimo vescovo, non ancora residente ma ormai prossimo a esserlo, si fanno tramite fra Milano e le diocesi vicine e portano in città una “novità” già tuttavia sperimentata. Così i primi uomini di san Carlo, Niccolò Ormaneto e soprattutto Alberto Lino - che saranno rispettivamente il suo primo vicario generale e moniale, e travasarono nella diocesi ambrosiana una parte importante della loro esperienza al servizio del Giberti - faranno arrivare in città da Brescia la prima regola delle vergini di sant’Orsola. Sappiamo bene la storia che seguì: la regola originaria non essendo stata approvata ufficialmente, era suscettibile - come avvenne puntualmente - di ogni modifica locale. E così avvenne in effetti anche a Milano. Lo staff borromaico vide in queste donne, consacrate ma laiche a tutti gli effetti, delle grandi potenzialità pastorali - probabilmente già sperimentate nella stessa Brescia nell’ambito però piuttosto caritativo -. Carlo intervenne da suo pari, cioè da giurista qual era, normando, e dunque anche modificando largamente la regola originaria, del resto in prima battuta neppure citata. Così la prima regola milanese del 1567 mostra uno spirito sostanzialmente diverso dalla spiritualità di sant’Angela. Niente mistica, niente spiritualità sponsale, niente “libertà” dello Spirito, niente carisma tutto giocato sui toni della laicità e della femminilità. Siamo invece davanti allo sforzo di dare una veste giuridica stabile a un gruppo di donne che, come tali, avevano soprattutto la necessità di essere ben indirizzate e anche certo “controllate”. Ciò detto, occorre tuttavia riconoscere il coraggio di una fondazione in sé portatrice di vere novità pastorali.
Le prime orsoline milanesi furono infatti certamente delle consacrate laiche che vivevano in famiglia e in casa - propria e non -. Seguivano infatti, pur senza emettere voti precisi, uno stile di vita improntato alla rinuncia alla proprietà personale - il che voleva dire accontentarsi di poco, senza tuttavia mendicare -, osservando nel contempo ubbidienza e castità. Come le bresciane, erano affidate a “governatrici”, anch’esse laiche. Nella Milano borromaica, tuttavia, il problema di un controllo efficace da parte dell’ordinario fu ottenuto affiancando alle giovani orsoline, non a caso indicate come “puellae”, donne più mature indicate come “viduae”, le Vedove di sant’Anna - le stesse cui Valier si era probabilmente ispirato -, di cui pochissimo sappiamo per oggettiva mancanza di documentazione. Anche queste ultime ricevettero nel 1570 una regola apposita, nella sostanza parallela a quella delle orsoline. Il loro compito precipuo era quello di proteggere «le vergini della compagnia di s. Orsola visitandole et aiutandole nei loro bisogni spirituali et temporali secondo l’ordine che sarà loro dato dal priore». A rendere ancora più forte il legame fra le due Compagnie era il fatto che esse avevano «i medesimi confessori».
Pur essendo nella sostanza “disperse” nel territorio, queste donne erano però tenute a formare una “rete”, come diremmo noi oggi, aiutandosi per esempio nel bisogno. Avrebbero poi dovuto vestire «con modestia», e in particolare non andare «fuori casa, in qual si voglia luogo, senza aver velato il capo con drappo di tela, o di velo non trasparente». La loro grande libertà di azione prevedeva però dei limiti ben precisi: esse sarebbero state subordinate al parroco della parrocchia di appartenenza abitativa e in ultima analisi, quindi, all’ordinario. Essendo incardinate nelle parrocchie, orsoline e vedove di sant’Anna erano poi tenute a riconoscere una guida comune, porta per porta, in un priore del quartiere. Avevano tuttavia anche un superiore generale, che teneva le fila dalla chiesa del Santo Sepolcro, cuore del rinnovamento cittadino al tempo di san Carlo, centro dei progetti a lui più cari, dalla Compagnia della Dottrina Cristiana, appunto a quella di sant’Orsola e di sant’Anna, infine agli Oblati. Il superiore - che ben presto diventò, molto significativamente, comune a tutte tre queste compagnie - si preoccupava soprattutto di garantire la qualità del cammino spirituale di queste donne: orazione, mentale e non, quotidiana; esame di coscienza serale; ufficio della Madonna; rosario; confessione e comunione la prima domenica di ogni mese e le feste più importanti; partecipazione alla messa settimanale, e quotidiana ma solo con il permesso del confessore, che avrebbe anche avuto il compito di avviarle alla lettura di qualche libro “spirituale”, segnatamente le opere di quel Loarte, che san Carlo si affannava a imporre un po’ a tutti nella città e nella diocesi . Il superiore avrebbe poi dovuto, due o tre volte all’anno, intrattenerle su temi spirituali, e soprattutto sull’importanza e bellezza della vita verginale. Come già a Brescia, almeno all’inizio della loro vita milanese, le orsoline vennero impiegate nei luoghi tipici della carità, dagli ospedali ai diversi luoghi pii cittadini: così, ad esempio, «quattro vergini della veneranda Compagnia de s. Ursula dopo aver udito la messa» si occupavano dei «poveri puttini» dell’ospedale di San Celso ; altre insegnavano «a guisa de bone madri … specie cucito et ricamo» nel Pio Luogo per le orfane di Santa Caterina, a Porta Nuova, dove san Carlo aveva aperto una sorta di scuola di economia domestica per le ragazze prive di famiglia ; sei ancora erano «di grande consolatione per le povere puttine» pericolanti del Luogo Pio del Soccorso; e orsoline operavano pure nel monastero di San Zenone, presso le prostitute “pentite” . A Milano, però, ben presto esse vennero utilizzate anche e poi soprattutto in altro modo.
Insomma, con questa prima operazione, a Milano il Borromeo e i suoi collaboratori - tengo a sottolineare questo aspetto giacché i miei studi, che spero di poter confermare con un lavoro di scavo ben più ampio in futuro, mi dicono che il mito di Carlo come deus ex machina non è probabilmente reale, mentre esisteva invece un gruppo consultivo e operativo molto ben amalgamato e affiatato - avevano ottenuto di sostituire quella che era una “regola privata” con un’altra pensata ad hoc per incanalare e ben usare delle forze che promettevano di essere fruttuose. Due anni seguirono, che possiamo pensare “sperimentali”. La cosa funzionò bene, appunto perché rispondeva a un bisogno reale, e dunque nel 1569 uscì una seconda edizione della regola: e per la prima volta si faceva finalmente almeno un cenno alla Fondatrice e alla prima regola bresciana. La data del 1569 è importante. In quell’anno infatti, il IV concilio provinciale stabilì l’obbligo, per i visitatori, di diffondere ovunque la Compagnia di sant’Orsola: ed era appunto questo il motivo della seconda ristampa. Ma la cosa per noi rilevante è che lo stesso concilio vincolò parallelamente alla costituzione in ogni parrocchia della diocesi alla fondazione di una Scuola di Dottrina: e la Compagnia della Dottrina Cristiana, è da sottolineare, aveva visto anch’essa la sua prima ristrutturazione carolina proprio l’anno precedente. Lo sforzo di san Carlo produsse, com’è noto, una catena di fondazioni parrocchiali di Scuole che avevano il compito di insegnare «nei dì di festa ai puttini et alle puttine li buoni costumi cristiani et leggere et scrivere» , divenendo un importante strumento di alfabetizzazione di base. Poiché le Scuole rispondevano alle necessità pastorali della Chiesa, ma anche al bisogno di istruzione elementare dei ceti meno abbienti, esse si diffusero molto rapidamente. Qualche dato: al termine dell’episcopato del primo Borromeo, erano certamente presenti in 740 parrocchie della città. Si è ipotizzato che, su di una popolazione cittadina di circa 113.000 abitanti - 113.875 esattamente - le scuole di Dottrina Cristiana coinvolgessero un totale di 12.455 scolari di cui si occupavano 7.391 “operari”, uomini e donne, di cui, forse, 1.478 fra maestri e maestre.
Qui entriamo nello specifico milanese per la vita della Compagnia di sant’Orsola. E ci troviamo in presenza di un progetto educativo di ampio respiro. La storia della Compagnia della Dottrina Cristiana corre infatti del tutto parallela a quella di sant’Orsola. Entrambe venivano da un orizzonte precedente alla rottura confessionale riformata; entrambe appartenevano a un movimento di autoriforma senza connotazione confessionali; entrambe erano nate su di un terreno “laico”; entrambe, proprio per questo, trovarono sulla propria strada l’inciampo di una chiesa, come quella tridentina, dove tutto ciò che sapeva di libertà per i laici, ancora peggio poi se di colorazione femminile, verrà sentito come pericoloso e, alla fine, illegittimo. Dunque, la Compagnia della Dottrina venne anch’essa ben regolamentata, e controllata dall’alto, incardinata come presto fu nella parrocchia e sottoposta al vaglio del suo rettore e, sopra di lui, dell’ordinario.
Ora, in questo progetto, alle orsoline venne però riservato un posto di rilievo. Nella chiesa della Controriforma, infatti, l’educazione catechetica seguiva modelli standardizzati un po’ ovunque e, fra questi, la rigida separazione dei sessi: solo uomini potevano dunque insegnare ai ragazzi, e, ancora più rigidamente, solo donne alle ragazze. Ci imbattiamo, è vero, talora anche in chierici che insegnano «a donne overo putte», ma questo non era certo ritenuto opportuno. Questo rilievo è valido anche per le scuole di base, normalmente quelle comunali, nelle quali, appunto per lo stesso motivo, non è rarissimo trovare anche delle maestre. Analogamente, nelle Scuole di Dottrina Cristiana, troviamo degli «Avvisi particolari per le Scuole delle donne», evidentemente costituite e rette a parte, e che dovevano esser organizzate da donne «quali sono più delle altre in matura bontà et in vita christiana approbata, et nell’esercitio più pratiche». Rigidamente subordinate ai maschi della Compagnia, tanto che non potevano «determinare alcuna cosa, se prima non [era stata] approbata dalla congregatione delli huomini», le Scuole femminili avevano comunque delle proprie visitatrici, esattamente sei - una per sestiere -, elette dal priore e confermate dalla congregazione generale della Compagnia che sovrintendeva ai corsi. E le scuole “al femminile”, soprattutto per mancanza di altre strutture educative, paiono esser state richiestissime, tanto da superare la frequenza maschile. Ora, il cardinal Borromeo ritenne evidentemente la Compagnia di sant’Orsola particolarmente funzionale alle esigenze della pastorale giovanile femminile del tempo e quindi, programmaticamente, nella regola milanese, al capitolo intitolato «In che modo si hanno [le orsoline] da essercitare le feste», è esplicitamente stabilito che «nelli giorni di festa oltre l’udire Messa, et predica, cerchino sempre di occuparsi in essercitij pii, come leggere, meditare et orare e specialmente di andare alle Scuole della dottrina christiana» . In parallelo, era previsto che anche le Vedove di sant’Anna, a parte quelle «che legittimamente non saranno impedite, le feste vadano ad insegnare et operare nelle scuole della dottrina cristiana». Le orsoline, insomma, avrebbero dovuto senz’altro esercitare il loro apostolato nelle Scuole, mettendosi completamente al loro servizio: sicché avrebbero dovuto «essercitarsi a insegnare o a imparare ciò che ivi s’insegna et impara» . E, sino dai primissimi documenti milanesi, troviamo effettivamente citate parecchie «Orsoline che insegnano a leggere» in varie parrocchie. Non ci è, purtroppo, possibile dire se, nelle Scuole femminili, le seguaci di sant’Orsola svolgessero il compito di semplici maestre, o non piuttosto quello di superiore, o ancora di visitatrici. Comunque sia, anche il semplice ruolo di maestra ci rimanda a un aspetto assai interessante - la cultura di queste laiche consacrate - sulla quale non è però purtroppo possibile svolgere, stante i documenti in nostro possesso, un discorso organico. Molte fonti documentarie convergono lasciandoci però intravedere un buon livello culturale, almeno meno per quanto concerne la capacità di lettura. La stessa regola prevedeva del resto espressamente la lettura di alcuni libri devozionali - che, naturalmente, potevano esser letti ad alta voce, come accadeva all’epoca, dalle consorelle alfabete -; e, per la verità, contemplava la possibilità che non tutte le orsoline fossero alfabete: a questo appunto essa forse alludeva laddove prospettava la loro frequentazione alle lezioni delle Scuole non solo per insegnare, ma anche per imparare: ho ritrovato comunque, nelle ordinazioni caroline alle varie parrocchie di Milano, la stessa formula, evidentemente usuale in casi del genere, per i chierici in difetto di preparazione.
Possiamo ora passare dalle regole e dalla normativa alla concretezza della vita, e cercare di trovare traccia documentaria di queste Vergini “in casa”. Ovviamente, esse sono assai scarse, proprio a causa della mancanza di una vera e propria struttura. Possediamo numerosi elenchi di orsoline e Vedove di sant’Anna - distinte opportunamente in puellae e vidue -: per esempio in Santa Maria Fulcorina o San Satiro. Questi elenchi sono interessanti: le donne vivono in casa, qualche volta si tratta di una casa propria, insieme al padre o comunque alla famiglia; altre volte però esse stanno in casa d’altri; non di rado, poi, troviamo gruppi di sorelle, a indicazione probabilmente, come si diceva, di una situazione familiare di indigenza. Di fatto, ad esempio, la seconda edizione della regola milanese intitolava esattamente Regola della Compagnia di Santa Orsola fatta per quelle Giovani, le quali desiderano servire à Dio nel stato Verginale, stando nel secolo; e per quelle, le quali per povertà, o per altri impedimenti non possono entrare in Monasterij. Aggiuntovi i Capitoli del Governo, che hanno di havere i Governatori, e Governatrici di essa Compagnia. Con licentia dell’Illustriss. & Reverendiss. Sig. Cardinale Borromeo, Arcivescovo di Milano. In buona parte di questi casi, troviamo effettivamente le Vergini impegnate come maestre di dottrina: così a San Satiro, in Santa Maria Beltrade o nella parrocchia dei Santi Cosma e Damiano . Talora, però, abbiamo l’annotazione della presenza di scuole di dottrina tenute “separatim” per maschi e femmine anche laddove non ritroviamo espressamente la presenza di orsoline, come in San Calimero o San Francesco da Paola, e neppure dove sappiamo per altra via che esse erano sicuramente presenti, come per esempio San Nazaro.
La modalità che chiameremo “in casa” continuò in realtà più a lungo di quanto comunemente si pensi. Lo dimostra con sicurezza il Registro della Compagnia conservato nell’archivio degli Oblati di Rho, una fonte senza data ma che risale sicuramente all’inizio del XVII secolo, e precedente il 1620. Questo “Registro Generale della Compagnia di S. Orsola” mostra infatti la prevalenza numerica, ancora a quella data, della modalità delle orsoline in famiglia. Vengono infatti citate 138 orsoline divise nelle sei Congregazioni cittadine, alle quali dobbiamo aggiungerne altre 51 fra Monza, Varese e Vimercate, ma, nello stesso tempo, ne enumera ben 316 in casa, accuratamente indicate per nome, età e domicilio, per la sola città di Milano. Questo interessante documento ci consente di capire un poco più precisamente in cosa consistesse il “controllo” borromaico: di fatto, di queste donne si dice con ogni cura nome e cognome, età, parrocchia di residenza, abitazione, ma soprattutto viene annotato il nome del loro confessore: e non sarà senza importanza rilevare che non sempre si tratta del loro parroco territoriale. Spesso, invece, queste donne si concentrano in luoghi ben determinati e probabilmente deputati alla loro direzione spirituale: san Fedele, per esempio, e quindi i gesuiti, oppure sant’Alessandro, e cioè i barnabiti, ordini che troveremo entrambi presenti nell’evoluzione di alcuni di questi gruppi. Possiamo aggiungere un’altra testimonianza per Milano città che risale al 1608: in tutto si notano 45 donne - come sempre sono presenti gruppi di sorelle: due in un caso, addirittura tre nell’altro -. Sicuramente vivono in casa, qualche volta propria. Quanto al confessore, vale quello che abbiamo appena notato.
Come si vede, abbiamo citato il termine di “congregazione”, il che ci costringe a un passaggio successivo. Generalmente si osserva - e così ho fatto anch’io in studi precedenti - che già dal 1570 troviamo in verità in Milano anche un’altra soluzione: la scelta cioè di abitazioni nelle quali risiedevano, senza ancora seguire una vera regola, dei “gruppi” di orsoline. Qualche volta, queste abitazioni erano in realtà degli ex monasteri presi in affitto. E la soluzione di riunirsi fra persone che avevano fatto la medesima scelta vocazionale dovette rispondere a esigenze reali, se è vero che qualche comunità fu addirittura costretta a cambiare sede scegliendone «una più capace»: segno evidente della sua crescita numerica. Si fa nascere da qui la soluzione di una convivenza sempre molto libera e “laica”, ma non più solitaria, le Congregazioni, che si moltiplicarono anch’esse velocemente, mescolandosi di fatto alle Compagnie formate, parrocchia per parrocchia e porta per porta, da orsoline “in casa”. Come queste ultime, le Compagnie furono dislocate sul territorio e legate anch’esse alle porte cittadine: saranno infatti originariamente sei, appunto una per ogni porta. Tale modifica è stata interpretata in genere come una “involuzione” e come una tappa verso una vera “monacazione”. E, come tale, stigmatizzata e indicata come uno dei tanti momenti dell’esteso “controllo” di una chiesa “controriformistica”. Queste note vogliono provare a rivedere il problema guardandolo senza preconcetti, innanzitutto: e da un altro punto di vista.
Il primo elemento da sottolineare mi pare questo: la storia delle orsoline milanesi - ma forse non solo di quelle - mostra, credo, che le gerarchie ecclesiastiche del tempo erano perfettamente in grado di comprendere l’importanza e l’utilità pastorale di donne consacrate, quindi anche certamente “controllate”, ma soprattutto libere da ogni vincolo e impegno. In fondo, quando la prima regola bresciana era arrivata a Milano, era stata accompagnata da una lettera scritta dall’allora confessore delle orsoline di tale città, Francesco Landini , che, mentre tesseva un breve elogio della Compagnia e della sua Fondatrice , forniva però alcuni dati rilevanti: a quell’epoca a Brescia le orsoline erano 130, considerando le «vergini, senza le vedove» - molto interessante anche qui l’accostamento - ed erano straordinariamente utili negli Ospedali cittadini ma anche nelle «scuole dell’instructione christiana». Non erano religiose in modo formale, si notava; tuttavia, proprio perché dedite a una testimonianza domestica, e proprio per la loro frequenza ai «santi sacramenti, le sante orationi e il culto santo del Signore … se ne serve Dio per conversione delle anime e a tirar molte case, dove loro abitano, al servitio di sua divina Maestà». Questo era certamente accaduto anche nella Milano di Carlo Borromeo. Ma come tutelare queste donne? Come, soprattutto, evitare loro, nelle ricche case dove molto sovente venivano accolte, un possibile e anzi probabile ruolo di “servizio” in senso proprio che le avrebbe però distolte dalla loro vera “vocazione”?
La storia di queste Congregazioni ci consente di capirne qualcosa in più. Il «Collegio di Santa Sofia», per esempio, era stato fondato da «san Carlo, con la prefissione del numero di 8, o dieci, e non più, che vestissero l’habito monacale con l’haver assegnata alle medesime rendita sufficiente per il loro congruo sostentamento». Il vescovo ordinò dunque che il loro compito fosse «in tenere in educatione zitelle, per allevare nel sancto timore di Dio, e nelle virtù cristiane, et ammaestrarle nelle faccende proprie del loro sesso, con obbligo à queste di pagare la dozina per gli alimenti, che riceveranno nello stesso conservatorio». Non è espressamente detto che questa Congregazione nasca orsolina: anzi, si nota che «col tratto di tempo il numero delle stabilite è andato crescendo à segno, che volontariamente si sono messe a osservare la vita claustrale alla forma delle orsoline senza obligarsi alli tre voti esenti della Religione» . Effettivamente, questa impressione ci è confermata da un libricino a stampa ritrovato fra le carte del Conservatorio stesso intitolato Ordini aggiunti dall’Illustrissimo, & Reverendissimo Sig. Cardinale Borromeo Arcivescovo di Milano, per il buon governo del Luogo Pio di Santa Sophia, & per l’intiera osservanza de gl’ordini fatti da S. Carlo, fondatore di detto luogo. Si trattava, insomma, originariamente, di un luogo pio dedicato al ricupero delle «giovani pericolose», da accettarsi “gratis” «se totalmente povere», o, potendolo, «non … meno di quattro scudi il mese». Ma, ancora nel 1616, si sottolineava che «al governo di detto luogo pio» dovevano «assistere alcune Vergini, ò donne vedove … et di presente vi sono Vergini della Compagnia di Sant’Orsola». Ne deduciamo, e il fatto è di per sé assai interessante, che la regola di quest’ultima era stata assunta come capace di dare forma e ordine alla gestione del Conservatorio medesimo. L’impressione che se ne ricava è dunque che la formula delle orsoline congregate sia poi stata addirittura estesa ad altre realtà. In una parola, non pare affatto che la soluzione della congregazione fosse, come dire, un ripiego. Ciò mi pare confermato anche da un decreto, senza data, ma che è stato attribuito alla fine del XVI secolo o dai primissimi decenni di quello successivo, che stigmatizzava addirittura il fatto che alcune «mulieres … absque licentia assumerunt habitum Congregationis Virginum Sanctae Ursulae» cosa che veniva ovviamente proibita «nisi impetrata a nobis in scriptis» pena interdizione «ab ingressu Ecclesiae»: diventare, o addirittura “sembrare” orsolina non era certo una cosa impropria …
La storia delle altre Congregazioni, che normalmente vengono costituite laddove preesistevano sin dagli anni ‘70 gruppi di Vergini “in casa”, aggiungono qualche altro dato. Per Santa Cristina, sappiamo di una congregazione di «Reverandarum Virginum Sanctae Ursulae sub titulo Sanctae Christinae extra portam cumanam Mediolani» fondata dal Borromeo nel 1580. Il 5 settembre 1584, san Carlo aveva poi provveduto a “stabilire” anche il «collegio delle Vergini di Santa Marcellina situato in Porta Orientale» laddove precedentemente erano state le «monache di Santo Ambrogio». Queste due Congregazioni, a causa della tenuità dei loro beni, furono poi fuse nel 1774. Ancora più interessante il caso della Congregazione di Santo Spirito, fondata anch’essa da san Carlo nel 1583, «avuta la notizia di alcune pie zitelle, che in questa medesima città sotto la protezione e in certo luogo chiamato Santa Margherita si eran radunate a convivere con grande edificazione di cittadini». Il vescovo, dunque, «ottenne loro, dopo la celebre soppressione degli Umiliati, il convento di Santo Spirito, che era una prepositura di un tal ordine unita a questo colleggio de’ Chierici denominato l’Elvetico». Successivamente, il 5 settembre 1584, le orsoline ottennero «tutt’i privileggi, immunità, esenzioni, e prerogative ecclesiastiche della … Congregazione di Santa Orsola … in virtù di un Breve apostolico di Gregorio», lo stesso di cui parleremo fra non molto. La cosa ancora più intrigante è che, come d’altra parte apprendiamo anche e più estesamente da fonti barnabitiche , qui vennero in origine integrate e amalgamate alle orsoline - dopo tutte le difficoltà di questa nuova e “chiacchieratissima” Congregazione - le «monache agostiniane della congregazione di San Paolo Converso, denominate Angeliche , senza però obbligarle alla rigorosa clausura apostolica, né a fare i voti solenni di religione, ma soltanto osservare la ritiratezza e la sostanza di quella e delle virtù corrispondenti a tali voti [a guisa delle monache] come in fatto l’hanno sempre osservate e tuttavia l’osservano … vivendo in obbedienza, castità, e povertà a guisa delle monache, di modo che lo stesso Collegio è tenuto comunemente per un vero monastero, et chiamate le oratrici le monache di Santo Spirito» : una bellissima e chiarissima definizione, questa del Pozzobonelli, usata però molte altre volte proprio per indicare la serietà vocazionale delle laiche consacrate milanesi.
Questo magnifico documento - qui siamo nel 1742 - chiede di essere commentato e consente di gettare una luce su tutto quanto stiamo andando costruendo. La vicenda delle orsoline milanesi ci permette di intravedere che, più che un problema reale circa la clausura - come in genere si è interpretato - ci fosse un vero rebus concernente le fonti economiche sulle quali le orsoline e le Vedove di sant’Anna - ma in generale tutte queste associazioni di tipo laicale - potevano contare per vivere. Sarà stata davvero la peste a mettere in crisi la soluzione delle orsoline in casa? Probabilmente, si sarà trattato piuttosto di una aggravante. Ma il problema del reddito era molto serio: soprattutto se si aveva a che fare con ragazze certo non ricche. Radunare le Vergini e dotarle era dunque un obiettivo molto sensato e ragionevole. Certamente, poi, esisteva, come abbiamo visto in controluce anche nelle parole del cardinal Pozzobonelli, il problema di dare spessore e serietà a una scelta di vita assolutamente non consueta per il tempo. Non dobbiamo dunque meravigliarci di vedere alcuni gruppi inizialmente di orsoline procedere poi per altre strade: molto chiaro il percorso del gruppo di Marta Piantanida - lei stessa con altre due compagne - che, sentendo nascere in sé una vocazione religiosa, iniziarono con il prendere «l’habito di Sant’Orsola l’anno 1574» dando inizio a «una congregatione d’Orsoline» in una casa che apparteneva a Isabella Borromeo, dalla quale fu poi comprata da tre «nobili milanesi» e messa loro a disposizione. «In questa congregatione perseverarono per alcuni anni, attendendo a molte opere di carità». In dettaglio, «andavano nelle case private a servire li infermi poveri; vivevano tutte con quello che giornalmente guadagnavano lavorando» e frequentavano san Barnaba e dunque i barnabiti. Queste note sono preziose, perché è raro trovare un rimando alle fonti di reddito delle orsoline in casa: un altro caso, pure molto interessante riguarda una parrocchia di Trezzo dove si afferma che «tutti [quelli che insegnavano la Dottrina Cristiana, comprese due orsoline] venivano stipendiati dalla stessa comunità». Ma erano forse fonti di entrata precarie …
Non ci dobbiamo meravigliare, dunque, apprendendo che alcune di queste Congregazioni evolsero verso soluzioni più tradizionali: Santa Prassede divenne un monastero cappuccino, Santa Lucia benedettino, mentre, come si è detto, Santo Spirito finì per seguire le regole delle Angeliche.
Ma, proprio per questo, il Borromeo, alla fine del suo governo, pensò di regolare in modo definitivo tanto le orsoline “in casa”, quanto le Congregate. Nel, 1582, dunque, uscì la quinta edizione della regola delle prime, ma, come sappiamo, il cardinale - assumendo molto probabilmente l’ottica dei suoi stessi collaboratori - si adoperò perché Roma intervenisse a dare stabilità e legalità anche alla soluzione della congregazione. Così si esprimeva, ad esempio, il superiore della Compagnia, Gerolamo Rabbia: «Vostra Illustrissima Signoria sa che in Milano e fuori sono piantate alcune case dove sono ritirate delle vergini della Compagnia di s. Orsola a vivere in congregatione con vita comune, per meglio servire nostro Signore. Alle quali da vostra Illustrissima non è anco stato fino adesso dato alcuna regola da osservare. E però ci è parso bene mandarle questa da vedere affine che giudicandola a proposito confermi e la mandi alla autorità sua approbata».
Questa esigenza trovò appunto un riconoscimento formale poco dopo, nello stesso 1582. Con un interessantissimo Breve, Gregorio XIII eccezionalmente concesse infatti alle orsoline di ereditare: in una parola, di ricevere un dote e quindi anche di versarla alla Congregazione, pur non trattandosi formalmente di un monastero: «li concede [il pontefice] … che tutte, & ciascuna Vergine che si trova, & che sarà pro tempore, & entrarà in detta Compagnia possi havere, & conseguire qual si voglia legati, donazioni, & disposizioni di qual si voglia cose, & beni. Di qual si voglia qualità, & quantità si siano lasciate a esse vergini sotto conditione che si faccino Monache, ò che faccino professione di religione, ò che si maritino … Come se fossero entrate in Monastero, ò professato religione, overo contratto matrimonio».
Non a caso, le Congregazioni milanesi cui si è fatto cenno, conservano sempre questo Breve, annettendolo all’instrumento stesso della loro fondazione. Si costituiva infatti, per questa via, la “base” economica della Congregazione stessa, alla quale le orsoline avrebbero poi potuto aggiungere i proventi derivanti dalle novizie, che ora potevano accogliere e che avrebbero dovuto pagare, per il vitto e l’alloggio, una “dozena”, cioè una retta, ma anche il ricavato delle «arti et esercitij onesti», cioè le opere «di ricamo et cucito» commissionate in genere da mercanti oppure da signore della buona società. Naturalmente, da questo momento per diventare orsolina congregata sarebbe stato necessario avere, seppure modesta, una dote.
Parlando del Breve di Gregorio XIII, vale la pena sottolineare che si trattava, da parte di Roma, di una decisione piuttosto nuova, che rompeva di fatto con tutta la vecchia tradizione negativa nei confronti delle capacità giuridiche delle donne e che, proprio per questo, venne accettata con difficoltà, se è vero che, ancora nel ‘700, troviamo a Milano lamentele al riguardo, e la curia dovrà affannarsi per dimostrare la legittimità dell’azione delle Vergini a chi invocava la incapacità giuridica di questo “ibrido” orsolino come motivo per non pagare gli interessi delle doti . E sarebbe allora opportuno chiedersi anche più seriamente quale fossero le motivazioni della clausura così fortemente ribadita invece per gli ordini religiosi femminili e perché lo stesso Borromeo, mentre metteva con rigore inflessibile grate e ruote dovunque, si adoperava poi concretamente a favore di una libertà di azione, certo limitata, ma per l’epoca comunque ragguardevole nel caso delle orsoline che andiamo trattando.
Il Breve fu poi concretamente aggiunto alla regola, voluta dal Borromeo per le Congregazioni orsoline, che tuttavia uscì nel 1585, e dunque dopo la sua morte, entrando pertanto sotto il nome del suo vicario Fontana negli Acta Ecclesiae Mediolanensis. Alla intitolazione delle regole per le orsoline “in casa” - con tanto di riferimento a “Governatori” e “Governatrici” - veniva ora aggiunto opportunamente la formula chiave che faceva la differenza: «E con la forma delle Cerimonie da usare quando le Vergini si velano, e quando si stabiliscono nella Compagnia. La qual Compagnia, e Regola, non solamente è stata istituita, & approbata dell’Illustris. E Reverendis. Cardinal di S. Prassede, ma anco poi ad instanza sua approbata dalla Santità di nostro Sig. Papa Gregorio XIII come per un breve posto nel fine appare».
Certamente, inoltrandoci nel secolo XVII, il clima muterà ancora e la curia milanese stessa fece sicuramente pressione perché le orsoline si adeguassero anche nell’abito, oltre che nello stile di vita, al modello religioso tradizionale che la Congregazione aveva di fatto veicolato. Molte sono dunque le orsoline che «supplicano» ripetutamente di esser autorizzate a indossare «il guendalino, essendo che altro non ne spinge ò questo desiderio, che per maggiore decenza … et per ascondere li capelli, et la golla, e per più modestia». È ovvio che il modello che si affaccia, sempre più presente, è quello monacale: modello “perfetto” agli occhi di tutti, comprese le stesse orsoline, evidentemente. Ma sarebbe un errore stare alle apparenze: perché, nella sostanza, esse non cessarono di rimanere al fondo delle laiche consacrate, certamente secondo le modalità possibili nella loro epoca. E rimasero un “fenomeno” sentito come “altro” e comunque di un certo peso, se ancora nel 1735 il vescovo Odescalchi ritenne opportuno tornare sulla vicenda della Congregazione con le sue Addizioni alle regole della Compagnia delle Vergini offerte a Dio nel secolo sotto l’invocazione di S. Orsola giusto l’Instituto di S. Carlo, date dall’Eminenstiss, e Reverendiss. Sig., Cardinale Benedetto Odescalco Arcivescovo di Milano a quelle Vergini che avendo le dovute abilità vivono in perfetta comunità nella casa del Collegio loro assegnata, e per maggiormente perfezionarsi esse in ogni virtù, e attendere al ben de’ prossimi coll’ammaestramento massime delle povere figliole gratis secondo le loro forze nel santo timor di Dio, Dottrina Christiana, e lavorìo. Il testo, scritto per risolvere i problemi dei sacerdoti che si occupavano delle orsoline, ancora “in casa” evidentemente, di Santa Maria, consente tuttavia di entrare nel merito del discorso che andiamo tessendo, testimoniando, fra l’altro, la lunghissima sopravvivenza della modalità “casalinga” della Compagnia stessa. Ebbene, l’arcivescovo Odescalchi, richiamandosi ovviamente alle regole degli Acta Ecclesiae, e dunque al Borromeo, ma insieme anche a Gregorio XIII ribadiva che: «L’idea di questo Collegio comprende due fini. L’uno di conservarlo, e promovere la Congregazione delle stesse Vergini offerte a Dio nel secolo nella città, dando comodo a quelle, che rimangono senza parenti, o non le conviene abitare con essi per giusti motivi, di ritirarsi a vivere in comunità, e perfezionarsi in detta Casa. L’altro di cooperare al ben pubblico con l’ammaestramento delle figliole, anche povere gratis secondo le forze del Collegio nel santo timor di Dio, e lavori adattati al loro stato, e capacità».
Le aggiunte dell’Odelscalchi ribadiscono la semplicità del vitto come del vestiario: una divisa, ma non un abito vero e proprio - «giusto la prima introduzione», si nota significativamente -; il colore sia «tané»; coperte «le brachia, il petto e le spalle» calze, e scarpe nere; «il capo … co’ propri capelli aggiustati in treccia, e se coperto, sia con scuffia non alla moda, ma … modesta, … così pure quando escano di casa vadino coperte con zendale nero, e denso …; le camicie … di tela di lino ordinaria senza merletti al collo, ed alle maniche» . E a questo testo si farà riferimento anche successivamente proprio per dirimere il problema, che nel tempo diventerà importante, ma significativamente, per le autorità civili e non per quelle ecclesiastiche: capire, cioè, se si trattasse di laiche o meno. È quanto aveva affermato a chiare lettere il cardinale Pozzobonelli nel documento che già abbiamo citato: queste donne emettevano, insomma, dei voti che erano rimasti semplici, ai quali non erano di fatto «obbligate … benché inviolabilmente li osservino» e questo valeva anche per la clausura. Si trattava, dunque, di una osservanza “volontaria” di donne che vivevano «a guida delle monache» pur non essendolo veramente, se non nell’immaginario popolare, apparendo effettivamente alla gente comune come “monache” in senso pieno: ma più per la trasparenza della vita, per l’impegno, l’abnegazione e per lo spirito di carità, che non per il vestito o per l’obbligo alla clausura.
Rilievi in parte simili possiamo fare anche per altre aree lombarde e segnatamente per quelle alpine per lo più dipendenti dalla diocesi di Como - con qualche eccezione: per esempio, le Tre Valli Ambrosiane - come soprattutto l’attuale Ticino, ormai diventata una zona sensibile di confine nella quale, sul modello milanese, tutta la catechesi femminile venne demandata appunto alle orsoline. Durante la visita del Ninguarda del 1591, ne vengono citate espressamente circa duecento; tuttavia, non sempre viene indicato il loro numero, che era forse superiore.
Queste orsoline erano di derivazione comasca: e questa diocesi, come ora diremo, procedette nei loro confronti in modo un po’ diverso. Innanzitutto la Compagnia di sant’Orsola compare a Como legata a quella di Gesù. Sappiamo che i gesuiti presero piede in città nel 1561, occupandosi subito della formazione dei giovani. Dieci anni più tardi, insieme al vescovo Volpi, fondarono la prima Scuola di Dottrina Cristiana e subito dopo - 1572 - nello stesso luogo - una casa che era di proprietà dell’Ospedale cittadino di Sant’Anna - verranno chiamate le primissime orsoline, grazie ad un lascito che avrebbe dovuto essere usato in parte per il vitto destinato alle maestre di dottrina, in parte per stipendiare due maestri uomini - di grammatica e dottrina - e infine in parte per dotare tutto questo pacchetto “istruzione” dei libri necessari. Le orsoline, in questa fase, seguiranno la regola milanese del 1569, quindi quella delle orsoline “in casa”. Nel 1576, una parte di loro si stabilirà poi in San Leonardo, dando vita a una congregazione in nuce. Undici su quindici orsoline stavano nelle proprie case, quattro vivevano in comunità a san Leonardo, condividendo insomma i locali e i proventi - comprese le elemosine - con la Scuola di Dottrina Cristiana. Anche in questo caso, avremo da parte della curia comasca una Regola della Compagnia delle Vergini di Sant’Orsola istituita …in San Leonardo, ma solo nel 1622, da Filippo Archinti, regola assai prossima a quella milanese per le congregate.
La medesima regola venne poi adottata dalle orsoline di Mendrisio. Anche a Mendrisio esistette inizialmente un nucleo di laiche consacrate, forse addirittura dal 1555, com’è testimoniato dal fatto che la prima fondazione parla di una «Domus congregationis venerabilium sororum Societatis Sanctae Ursulae», successivamente evoluto in “collegio” o in “pio ritiro”. Nel 1664, iniziò poi una vita propriamente comunitaria grazie al lascito legato a una orsolina, figlia di un mercante locale.
La presenza della Compagnia a Bellinzona sarà più tarda ancora - 1730 - e avverrà secondo modalità sensibilmente diverse. La fondazione sarà qui legata alla volontà di avere un collegio che si occupasse dell’educazione delle figlie delle buone famiglie del borgo: ovviamente, si tratterà di una Congregazione e, d’altra parte, non vi è traccia documentaria di una precedente tappa “in casa”. Vi si insegna a leggere, scrivere e a cucire alle giovani allieve. Comunque sia, tutte queste orsoline insegnano: ed è questa la ragione che spiega la loro fondazione.
Una storia simile, ma solo in parte, troveremo nella zona grigiona, zona di frontiera vera e propria fra un universo lombardo-cattolico e svizzero-riformato. Qui la Compagnia pare avere una storia meno brillante, anche per le obiettive difficoltà storico-politiche di questo angolo dell’ex ducato di Milano. Fu certamente presente però in due luoghi molto particolari: Morbegno e Poschiavo. Casi speciali, si diceva. Morbegno fu infatti nel XVI secolo il cuore di tutti i tentativi di difesa del cattolicesimo nelle Valli divenute grigione, soprattutto grazie al suo monastero domenicano. E qui, nel 1664, il vescovo di Como, Lazzaro Carafino, costituì una Congregazione di orsoline che, probabilmente, venivano da Bema. Esse erano «nattive del luoco di mezza età, quali vestano di panno color bigio, et hanno fatto voti di castità perpetua, convivono nella medesima casa, lavorano di tela, osservano “quoque modo” la regola di S.ta Orsola indirizzate dal loro r.do curato», il colto don Carlo Rusca. Seguivano insomma con scrupolo le indicazioni delle orsoline milanesi sciolte. A Bema si teneva sicuramente la Dottrina Cristiana domenicale, ma non sappiamo se queste orsoline vi fossero coinvolte. Una di queste era però un personaggio ben noto nella Valtellina del tempo, Margherita Fontana, e sarà lei a recarsi a Morbegno, dove, grazie anche all’appoggio di influenti personaggi locali, riuscì a fondare nel 1664 una Congregazione informale, particolarmente interessante perché sfiorata dal pelagismo, cui si suggerirà di «appigliarsi alle Regole stampate per l’orsoline di Como» . Forse a causa di questa “eterodossia”, la Congregazione, già nel 1675, evolse rapidamente in monastero con il nome di Monastero della Presentazione seguendo una regola ispirata a quella agostiniana appositamente scelta perché consentiva una interpretazione “moderata” della clausura: una clausura solo interna e notturna, in modo tale da permettere di giorno la continuazione delle attività caritative e scolastiche. E questa fu anche la soluzione adottata per l’area che potremmo dire in generale “svizzera”: nel comasco, nel ticinese a s. Margherita di Lugano e s. Caterina di Locarno, ma anche appunto nell’area grigione. Una soluzione che non era del tutto estranea, per la verità, anche nel milanese, tanto che appare largamente usata per le terziarie del Milanesado.
Sempre Carafino congregò nel 1629 a Poschiavo le orsoline che già vi vivevano “in casa”. Poschiavo rivestiva nel contesto grigione un ruolo ancora più importante, soprattutto dopo la sanguinosa insurrezione valtellinese del 1620, quando aveva accolto parecchi esuli riformati messi in fuga dal “Sacro Macello”. Qui, tuttavia, i cattolici - diversamente dalla Valtellina - non ottennero l’unicità confessionale e dunque, in una situazione, molto temuta dai vescovi di Como e di Milano, di contiguità reale con la Riforma si pensò a favorire in tutti i modi le iniziative tese all’educazione. Da Milano, Federico Borromeo provvide a finanziare a questo scopo una cappellania scolastica (1629), mentre alle ragazze il parroco locale, Paolo Beccarla - un sondriese che però aveva non a caso studiato all’Elvetico di Milano - aveva già provveduto, organizzando una scuola tenuta da orsoline che vivevano insieme e alle quali, sempre nel 1629, il vescovo di Como impose di seguire le regole comasche del 1622. Data la eccezionalità della situazione, è particolarmente interessante capire come esse venissero utilizzate e quale status avessero in concreto. Esse vivevano dunque in un “monastero”, da subito abilitato ad accogliere al suo interno una scuola. Erano tuttavia tenute a stare vicine alla parrocchia, pronte all’istruzione catechetica, ma non solo. Sicché, le orsoline poschiavine ci si presentano nella molteplice veste di ausiliarie della parrocchia, di sacristane e di educatrici. La loro vita era necessariamente piuttosto libera, senza una vera clausura, senza il vincolo, per esempio, delle ore canoniche; e questo principalmente per poter assolvere agli obblighi del loro servizio parrocchiale: «fare la dottrina Christiana …, udire la Messa Grande, le Prediche che vi si faranno, et intervenire all’Officiatura della Settimana Santa, sì per l’espositione del Santissimo, nelle quarantore, come nelle altre Sante Funzioni».
Un altro punto qualificante era costituito, come si è detto, dal problema della clausura, chiaramente reinterpretata. Il capo 3° della loro regola, intitolato «Della clausura», così infatti recitava: «La clausura, la quale consiste nel recinto del monastero, orto, e giardino … si osserverà rigorosamente, nel modo seguente, cioè che niuna persona vi possi entrare sotto pena di scomunica, se non per bisogno espresso del monastero, con licenza espressa della superiora … Le figlie poi esterne non potranno andar se non dentro le scuole. Le monache non potranno uscire … se non … per fare la Dottrina Christiana … il che finito … ritorneranno al collegio senz’andar altrove».
Le loro costituzioni passarono comunque attraverso successive modifiche. Le orsoline di Poschiavo furono anch’esse legate alla Compagnia di Gesù e, proprio sotto l’influsso di quei padri, che ritenevano troppo pesante il servizio richiesto dalla parrocchia, si andò verso la trasformazione in un vero monastero, anch’esso, non a caso come quello di Morbegno, intitolato alla Presentazione. La regola fu adattata ricorrendo anche in questo caso a quella agostiniana, imposta nel 1684 e stampata nel 1690. Ancora nel 1710, però, a fronte di un’ulteriore limitazione dell’apertura del monastero si consentiva - o meglio si imponeva - alle religiose di organizzare fuori dalla clausura una «scuola comune per tutte le figlie … anco di contraria religione ricche o povere, che siano senza alcun salario … senza alcuna obbligazione, ma solo per amore di quel Signore … al cui servizio … si sono dedicate»: un compito non solo permesso ma esplicitamente richiesto dalle autorità civili locali. Oramai, la “vocazione scolastica” era per queste orsoline irrinunciabile, come si dimostrerà nel corso delle tensioni ottocentesche con il governo cantonale. L’ottica del servizio “pubblico” alle scuole cattoliche del borgo prevalse, tanto che nel 1925, con l’aiuto degli Oblati di Rho vennero elaborate delle nuove costituzioni che alla fine, per evitare la soppressione, portarono alla nascita dell’attuale Congregazione di diritto diocesano con voti semplici: una riedizione in qualche modo “moderna” dello stile mericiano. È questo uno spunto sul quale mi propongo di lavorare in futuro: questa vicenda corre infatti - certamente non a caso - parallela a quella delle orsoline della Svizzera interna e soprattutto alla storia delle orsoline di Anne de Xainctonge, anch’ella legata alla Compagnia di Gesù, anch’ella richiamatasi nella sua fondazione al Breve di Gregorio XIII, in forza del quale la clausura verrà respinta con forza: una soluzione che, com’è noto, avrà molta fortuna nella Svizzera et ultra.
Possiamo, insomma, provare a tirare le fila. Nella sostanza, se non esattamente nella forma, la Compagnia di sant’Orsola in terra lombarda riuscì a tener vivo il carisma di sant’Angela, certamente riplasmandolo profondamente, ma riuscendo anche a conservarne i tratti salienti per quanto quel tempo poteva consentirlo: quelli cioè di una azione laica e femminile nel mondo, nello specifico giocata sul versante dell’educazione. Le orsoline di cui ci siamo occupati certamente persero la libertà che la loro Fondatrice aveva immaginato per le sue figlie, sottomesse come furono ai parroci e agli ordinari di riferimento. Tuttavia, non vennero rinchiuse a forza, non vennero claustrale, non furono costrette, nonostante gli interventi delle Bolle romane sulla clausura, alla emissione di voti solenni e obbliganti. Poterono uscire dalle loro case e dalle loro congregazioni, poterono - e in molti casi “dovettero” - uscire per insegnare e svolgere diverse mansioni nelle parrocchie vicine.
E questo emerge con chiarezza non solo nelle zone di confine di cui ci siamo occupati, zone molto particolari che consentivano certamente un uso più spregiudicato e nella sostanza “missionario” di queste donne laiche, certamente più libere e anche meno obbliganti e persino costose, in contesti molto difficili. Anche nell’area milanese, infatti, la sensazione è che la percezione di questa loro singolarità fosse ben chiara, soprattutto nel ‘700. Questo è ancora più evidente fuori dalla città di Milano, in situazioni nelle quali, probabilmente, l’offerta scolastica al femminile più doveva lasciare a desiderare. È stato molto interessante seguire la documentazione che concerne gli interventi giuseppini prima e poi napoleonici, quando la maggior parte dei collegi delle orsoline vennero soppressi, o più sovente chiesero di esserlo per non potersi - o volersi - adeguare agli standard pretesi dalle riforme del tempo. Così accadde per il “Collegio delle Orsole” di Monza, e per san Leonardo di Como, soppresso nel 1800. Al contrario, il Collegio di san Luca e Orsola di Codogno passò indenne attraverso la soppressione del 1810: in questo caso «le cittadine orsole… in discorso non furono colpite dal decreto di generale soppressione del 25 aprile 1810 siccome dedicate all’educazione».
Molto interessante è comunque l’atteggiamento dei funzionari statali che, mentre sono costretti a imporre «un Regolamento uniforme e relativo ai principi del Nuovo Sistema per simili Conservatori, e Collegi di Fanciulle» mostrano di essere assai preoccupati di mantenere in vita la rete scolastica precedente, che era piuttosto fitta, anche per quanto riguarda le terziarie e in specifico appunto per le orsoline: che troviamo a Lodi Vecchio, Borghetto, Castione, Codogno, Casal Pusterlengo e San Colombano , mentre delle terziarie francescane dell’Immacolata sono attive a Codogno e Malleo; infine, delle servite sempre a Codogno. Gli “amministratori” incaricati girano, danno dei giudizi, valutano le diverse realtà, ma anche in qualche modo le fotografano. Non tutti sono in grado di reggere le novità, certamente, però questi «Collegi … stabiliti nella campagna … colla loro situazione abbracciano, e sono comodi a tutta la vantaggiosa popolazione di questa Provincia». Come farne a meno?
Dal nostro punto di vista, particolarmente illuminanti sono le “schede” redatte: numero delle sorelle e delle converse, presenza delle educande rendite, disponibilità di spazi … Ma non ci si ferma qui. Cosa fanno, alla fine, queste donne? Tutto viene richiesto per iscritto, e per iscritto si risponde. Le orsoline sono vestite - narra una “madre” - da «Monsignor Vescovo», «non vi è obbligo di voto alcuno», «nessuna è costretta al coro, si recita però quotidianamente l’Officio della B. V. Maria», «in spiritualibus il collegio è soggetto al parroco di quel Distretto», infine «ogni tre anni l’Ordinario elegge il confessore, e due volte all’anno il Predicatore, cioè alla Quaresima, ed Avvento», «si sorte di casa col permesso solamente della superiora». Ce n’era abbastanza per tirare le fila. E, il 10 dicembre 1788, il solerte funzionario che aveva steso il resoconto, dettagliato e anche spregiudicato, sulle orsoline, si sbilanciava: si tratta di laiche. E così dunque concludeva: «Vi sono i Collegi delle cosiddette orsoline stabilite nella campagna … Il loro stabilimento sotto il nome di orsoline secolari unite collegialmente si è conservato a un dì presso con le stesse regole, e sotto li stessi principii. Vestono di nero, e portano un velo in testa all’uso monacale, non hanno clausura, non sono astrette da alcun voto, vivono in una piena libertà, e di ritirarsi dal Collegio e di maritarsi ciò che è più volte accaduto, nei quai casi il Collegio restituisce la Dote elemosinarla».
Un quadro nella sostanza simile è quello offerto dalle orsoline di Germinaga, in Valtravaglia. Anche qui siamo in epoca napoleonica, e i documenti che citeremo risalgono al 23 e 27 luglio 1791. Le orsoline, nella persona di quella che insiste a chiamarsi non “superiora” ma, alla maniera originaria, “priora”, dà alla Regia Amministrazione dei dati che riguardano le orsoline del collegio locale. Esse «hanno l’obbligo di fare la scuola, e di insegnare la Dottrina Cristiana nella chiesa». Fanno dunque «la scuola, e la fanno à fanciulli, come pure in Chiesa in qualità di maestre insegnano la Dottrina Christiana». Ma non si fermano qui. Come altrove in scarsità di manodopera, si danno da fare come sacrestane: «attendono à ricciar cotte, e camici della chiesa, come pure provedono la medesima di Ostie, e Particole, non essendoci notifica in tutta la Valtravaglia persone, che si esercitino in tale opere, o sia mestieri»; infine «aggiustano ancora le tovaglie, ed altri utensili della Chiesa». Anche in questo caso, si tratta di un impegno di fatto non istituzionalizzato. Significativamente, e alla maniera “antica” anche qui, non conosciamo il nome del fondatore, “non c’è patronato”, e i beni sono certamente “pochi”.
Un carisma, quello mericiano, che seppe dunque certamente ben conservarsi, soprattutto nelle realtà minori, dove il controllo era meno stretto, e la presenza delle Figlie di sant’Angela certamente più utile e preziosa.
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