Il contributo illumina i principali aspetti della vita religiosa femminile nel periodo del Concilio di Trento e della sua applicazione. Dopo aver richiamato alcuni elementi dell'istituzione monastica pretridentina, e indicato i provvedimenti conciliari adottati per la riforma della vita religiosa femminile, si concentra sull'esperienza spirituale vissuta dalle monache, sulle fonti della loro formazione, sui modelli di santità loro proposti, sulle pratiche e i mezzi utilizzati per raggiungere i loro ideali, sullo stile della loro vita comunitaria, sulle virtù che compendiano il loro cammino ascetico, sul loro rapporto con la Chiesa e con il mondo. Ne risulta un ritratto affascinante, che smonta lo stereotipo diffuso secondo il quale la monaca dell'età moderna sarebbe una donna stretta tra il dispotismo di scelte familiari opprimenti e la tiepidezza di una pratica cristiana povera di contenuti, dominata dal formalismo e dalla superstizione.
Premessa metodologica.
Utilità e insufficienza di un approccio di tipo socio-economico.
Negli ultimi anni diversi studi si sono occupati della vita religiosa femminile nell’età moderna. Sono emerse dinamiche interessanti, soprattutto per quanto concerne l’organizzazione dell’istituzione monastica. Il rischio però è di svolgere un’indagine che, privilegiando una prospettiva sociologica o economica, non riesca a cogliere gli aspetti più propri della vita che si conduceva nei monasteri femminili tra il XVI e il XVII secolo. In altri termini, non basta mettere in evidenza i modi e i motivi che portavano ad abbracciare la vita del chiostro né considerare i condizionamenti esercitati dalle famiglie e dai gruppi sociali di provenienza nella vita comunitaria e nella ripartizione delle cariche dentro il convento. E neppure è sufficiente analizzare le basi economiche e le tecniche di gestione dei patrimoni dei monasteri o dei regimi di vita di chi li occupava.
Occorre allargare la ricerca utilizzando altre tipologie di fonti per individuare le componenti più tipiche della vita religiosa: di quali pensieri e desideri si nutrivano quelle giovani donne che, numerose, popolavano i monasteri? Quali erano i momenti più qualificanti della loro esperienza religiosa? Come si rappresentavano il Signore Gesù? Come pregavano? Che forme assumeva il loro impegno ascetico? Quali virtù coltivavano in modo speciale? Quali stili connotavano la loro vita comune? Come concepivano la loro vocazione nella Chiesa e il rapporto con il mondo?
Solo rispondendo ad alcuni di questi interrogativi sarà possibile smontare lo stereotipo assai diffuso che pensa alla monaca dell’età moderna come a una donna stretta tra il dispotismo di scelte familiari opprimenti e la tiepidezza di una pratica cristiana povera di contenuti, dominata dal formalismo e dalla superstizione, magari rispettosa delle buone maniere propagandate dai pastori della Controriforma, ma in tutto subalterna per la sua passiva recettività e il raggio modesto delle sue risorse espressive.
Indicazioni offerte dalle fonti librarie.
Indizi importanti per cogliere alcuni nodi della vita religiosa femminile nell’età moderna possono venire dall’analisi dei libri custoditi nelle biblioteche dei monasteri e utilizzati dalle religiose. Questi testi costituiscono l’oggetto delle loro letture nel tempo libero, da lì traggono gli spunti per gli esercizi devoti e la preghiera, gli elementi per le liturgie corali e gli esempi edificanti da proporre in refettorio e negli ambienti del lavoro comune.
Quei volumi offrono modelli narrativi e sono serbatoi di citazioni da utilizzare in contesti di scrittura personale o almeno da copiare e parafrasare su fogli e biglietti destinati a passare di mano in mano. Attraverso strade molteplici, i testi scritti entrano ad animare le conversazioni e i passatempi amichevoli; rispondono alle esigenze religiose delle singole monache; alimentano un’intensa vita comunitaria, con letture collettive, scambi verbali, musica, canto, allestimenti di apparati in occasioni di feste, spettacoli e ricevimenti.
I. La vita religiosa femminile tra XV e XVI secolo
I monasteri femminili prima del Concilio tridentino.
La vita religiosa, una scelta spesso imposta. Benché le cifre oscillino in modo significativo da zona a zona, sembra certo che in tutta l’età moderna un buon numero di religiose abbracci la vita monastica senza averne la vocazione, in ossequio alla volontà delle loro famiglie, ispirate a loro volta da considerazioni di ordine economico o politico. Le monacazioni forzate hanno varie motivazioni. In genere nascono da pianificazioni elaborate nel quadro di complessi giochi di tipo ereditario-patrimoniale, nelle quali i rami secchi, o di disturbo, hanno il destino segnato. In monastero si entra anche per povertà: l’indigenza attanaglia molte famiglie e diventa motivo sufficiente per cui timide ragazze, senza futuro perché senza dote, si decidano a staccarsi dal ramo paterno e ad avviarsi alla clausura, penosa ma riparata.
Stretti e frequenti contatti con il mondo esterno. Agli inizi del Cinquecento, pur vivendo in convento, molte monache continuano a intrattenere relazioni strette con i familiari e diversi legami con il mondo circostante. L’osservanza della clausura è blanda: si può uscire dal monastero per svariati motivi e soprattutto è facile per gente esterna varcare spesso le soglie del chiostro. Ciò si spiega anche per ragioni economiche: la povertà in cui versa la gran parte dei monasteri li costringe a dipendere dalle elemosine raccolte nelle questue o assegnate dai familiari alle singole monache. I monasteri diventano terreno preferito della devozione, della beneficenza, della vanità magniloquente di alcune grandi famiglie o di potenti personaggi, che vi stabiliscono le stesse egemonie che esercitano nel quadro più ampio della società. Si sopravvive sì, grazie al sostegno di munifiche protezioni, ma questo comporta legami sempre più soffocanti e ricattatori. Nei monasteri la nobiltà trova un rifugio, una casa pronta ad accogliere e a riverire.
Mediocrità della vita comunitaria e il “sistema delle celle”. Poiché le entrate stabili non bastano a sostenere le monache, esse devono provvedere al proprio mantenimento con il lavoro e le sovvenzioni familiari. Questa modalità “privata” contribuisce a impoverire la vita comunitaria. A tale proposito, si parla di un’organizzazione del monastero fondata sul sistema delle “celle”: i momenti di vita comunitaria sono attenuati o del tutto assenti; è ridotto il numero degli uffici alle cariche maggiori, poiché viene a mancare la struttura organizzativa della comunità; la vita conventuale si svolge nelle celle dominate da gruppi familiari. In molte di esse ci sono camini che, oltre a fornire il riscaldamento nel periodo invernale, consentono di cucinare nelle singole stanze. Infatti anche il pasto in comune non appare più un uso generalizzato. Diverse monache coltivano orti “particolari” e allevano pollame proprio. Nelle celle si compie gran parte dell’attività lavorativa delle monache che per lo più si dedicano a lavori di cucito e di ricamo, accettando commissioni dall’esterno e trattenendo per sé il ricavato della loro attività. Insomma, la cella tende a diventare un microcosmo autosufficiente dove si riproducono le differenze sociali ed è possibile condurre una vita quasi privata.
Una vita spirituale impostata sulle devozioni. La vita monastica prevede la recita dell’Ufficio, al quale le monache in sostanza restano fedeli, mentre non molto frequente è la pratica sacramentale. Uno dei principali motivi di una certa rilassatezza della vita spirituale va individuato nella scarsa istruzione religiosa delle professe. Entrate in convento quasi bambine, esse incontrano il sacerdote unicamente come celebrante e confessore. Se i laici devoti possono approfondire le loro istanze di devozione frequentando i cicli di predicazione o le compagnie spirituali, le monache hanno un tramite per l’istruzione religiosa e morale soltanto nel confessore. E la carenza di buoni confessori e di sacerdoti che officino regolarmente nei monasteri è denunciata a più riprese.
Le disposizioni conciliari sulla vita religiosa femminile.
Le finalità della riforma. Alla base dell’opera di riforma della vita religiosa femminile del XVI secolo ci sono diversi motivi: il timore di una propagazione delle idee protestanti all’interno dei monasteri; la necessità di eliminare i disordini che causano scandalo; riportare nella vita religiosa la condizione di status scelto liberamente e creare le premesse per un ritorno all’osservanza delle regole. Già dal 1553 si stendono i primi progetti di una Reformatio regularium: sono la base delle successive disposizioni emanate nella sessione XXV del Concilio tridentino con il Decretum de regularibus et monialibus. Scarsamente discusso e approvato in modo affrettato, il decreto appare in alcuni punti una mediazione rispetto a precedenti proposte più radicali.
Gli aspetti qualificanti della riforma.
a) Favorire la libera scelta delle candidate. Pur non potendo eliminare alla radice le cause sociali che provocano la monacazione coatta, i padri conciliari ribadiscono il principio della libertà della scelta religiosa: elevano l’età minima della professione a 16 anni, ripristinano l’anno di probazione prima di emettere i voti e stabiliscono che ogni ragazza debba essere interrogata dal vescovo o da un suo delegato circa la scelta che si accinge a compiere. Tale interrogatorio non è certo sufficiente a garantire una libertà non consentita dal sistema familiare, ma vale almeno a introdurre una maggiore disciplina nelle accettazioni delle religiose sottraendole all’arbitrio delle badesse e delle priore dei singoli monasteri. L’introduzione dell’anno di probazione è inoltre la premessa per favorire una sia pur minima preparazione agli obblighi derivanti dalle regole e a promuovere la formazione delle novizie alla disciplina monastica sotto la guida di un’unica maestra.
b) Riorganizzazione della vita comunitaria. Le altre disposizioni dei padri conciliari, volte soprattutto a eliminare gli abusi più vistosi e a creare le premesse per ripristinare la vita comune infrangendo il sistema delle celle, agiscono in una triplice direzione: introduzione della clausura per tutte le monache con i voti solenni, e conseguente estinzione dei monasteri “aperti”; risanamento economico dei conventi per eliminare la proprietà privata; diminuzione del potere familiare sugli istituti monastici tramite una regolamentazione dell’accesso agli uffici abbaziali.
c) Migliorare la situazione economica. Decisivi appaiono alcuni provvedimenti tridentini nel ripristino delle condizioni economiche dei conventi. La povertà dei monasteri è considerata infatti una delle cause principali della inosservanza delle regole. Il Concilio sanziona il diritto alla proprietà anche per gli Ordini mendicanti. Mentre da un lato si ribadisce il divieto della proprietà individuale per chi ha emesso i voti, si concede a tutti gli istituti monastici, anche osservanti, il permesso di possedere beni immobili. La dote monastica diventa obbligatoria per chi vuole professare in una comunità femminile. In base alle risorse economiche disponibili, ogni monastero deve poi stabilire un numero massimo di ingressi che non può essere superato. Parallelamente si fanno sforzi di riforma dell’amministrazione dei conventi, di controllo sulla conduzione delle proprietà terriere e sui bilanci.
Le disposizioni tridentine toccano anche i modi di eleggere le badesse. Non solo l’elezione deve avvenire a scrutinio segreto alla presenza del vescovo o del superiore, ma norme precise vengono stabilite circa l’età e l’anzianità di professione delle eleggibili. Poi si regola anche la durata degli uffici e si limita il numero delle professe appartenenti a una stessa casata.
d) Ripristino della stretta clausura. La reintroduzione della clausura ha molteplici e complesse conseguenze sul piano istituzionale. Per i dispositivi che vengono applicati e per la tenacia con cui viene promossa da autorità centrali e periferiche, la clausura si risolve di fatto in una incarcerazione, che non viene facilmente accettata né dalle monache né dalle loro famiglie. La clausura finisce per essere assunta come l’elemento essenziale del programma di riforma dei monasteri femminili. L’infrangere un circuito troppo stretto tra professe e gruppi parentali, appare l’unica via praticabile per agire sulla disciplina interna.
e) Crescita della cultura religiosa. L’assolvimento degli uffici richiede anche un rinnovato impegno nella istruzione di base delle monache. Non basta più sapere a memoria il breviario, occorre effettivamente sapere leggere e scrivere. Le biblioteche monastiche vengono arricchite di volumi di carattere devoto e di testi adatti a essere letti in comune. La recita di drammi sacri contribuisce a fornire alle monache modelli di santità, mentre le commedie, che talvolta esse stesse producono, testimoniano come le professe imparino a volgere in termini spirituali storie d’amore.
Alla fine del ‘500 e nel ‘600 la scrittura femminile si raffina e si arricchisce di nuovi «generi» letterari: l’obbligo di dar conto della amministrazione del monastero estende l’uso della compilazione del tradizionale libro dei “Ricordi” e delle vacchette delle spese; la registrazione dei fatti quotidiani e degli eventi contemporanei si accompagna al desiderio di proporre la storia del monastero; il rapporto di direzione spirituale si trasforma in registrazione scritta di pensieri, ispirazioni, visioni, dando luogo a forme autobiografiche di scrittura mistica. Nel ‘600 - come già aveva acutamente osservato Benedetto Croce - tutta la cultura femminile è nei chiostri.
L’attuazione delle direttive tridentine e i suoi riflessi nei vari ambiti.
Riforma edilizia dei monasteri. La riforma dei monasteri femminili si presenta anzitutto come una complessa impresa edilizia. Spazi urbani e spazi interni sono segnati dalle norme riguardanti la clausura e la vita comune. L’architettura diventa il segno di un nuovo sistema di relazioni.
Caratteristica essenziale dell’ubicazione del monastero deve essere l’isolamento: distante da comunità religiose maschili e da abitazioni private, l’edificio non deve essere posto in prossimità di torri, mura, costruzioni alte, né ubicato vicino a piazze, mercati o vie di grande traffico. In ossequio alle norme tridentine, pur situato in un luogo né troppo nascosto né lontano da località frequentate, il monastero resta «fuori dalle mura della città o del villaggio». Separatezza, non nascondimento, e silenzio caratterizzano quindi uno spazio non visibile all’interno, ma il cui esterno costituisce area di accesso o prolungamento di un luogo dedicato al raccoglimento e alla preghiera. Cortili e giardini sono ampi, per consentire alle “incarcerate” di prendere aria; per togliere i “prospetti” e allargare gli spazi interni, vengono acquisiti edifici limitrofi, troppo addossati alle muraglie.
Più ancora del luogo, ciò che sanziona esternamente la condizione di separatezza del monastero sono i dispositivi applicati per instaurare la clausura: portoni, muraglie, grate, ruote, di cui si determinano misure e spessore; e poi chiavi e porte che si aprono soltanto dall’esterno; finestre murate od oscurate da tavole di legno; e perfino gli scoli dell’acqua nei giardini e negli orti vengono chiusi da grate. Ma soprattutto i nuovi parlatori sono destinati a mutare il sistema di relazione: le monache divengono una presenza non vista, si trasformano in una voce. Le disposizioni circa l’apertura della finestrella del parlatorio selezionano coloro per cui le monache possono continuare a essere un volto: il Vescovo o i superiori dell’Ordine, padri e madri, fratelli, sorelle e stretti parenti delle monache, predicatori.
Anche la riorganizzazione interna del monastero appare segnata dalle nuove strutture edilizie. La rinuncia alla proprietà privata e la reintroduzione della pratica della vita comune inizia da una redistribuzione degli spazi interni. Infrangere il sistema delle celle significa anzitutto ricostruire le basi perché alcuni momenti essenziali della vita quotidiana, quali i pasti e il lavoro, siano svolti in comune e comporta anche la necessità di mutare i rapporti di relazione delle persone nel monastero riproponendo quella divisione per categorie che è stata infranta dalla cella. Il ripristino della vita comune viene affidato alla ricostruzione del refettorio, di un luogo comune ove riscaldarsi, di uno o più dormitori dove le celle siano sempre aperte, di un’infermeria, del guardaroba, di una lavanderia.
Ristrutturazione della vita interna. Le relazioni interne al monastero vengono radicalmente mutate dalla costruzione del noviziato, in un luogo separato, dell’educandato per le “putte” o secolari e da un’abitazione per le converse. Scompare la comunità di vita tra zia e nipote che significa presenza e continuità di un gruppo parentale e legami affettivi. La rescissione dei legami parentali appare necessaria per evitare il predominio di gruppi familiari e impedire la costituzione delle “sette”, ma al tempo stesso contribuisce ad attenuare quella sottile violenza in forma di seduzione esercitata dalle famiglie nei confronti delle ragazze destinate al chiostro, che si avvale soprattutto dell’alleanza padre-zia. Se al padre spetta la decisione sulla destinazione monastica della figlia, alla zia è affidata la persuasione.
La ricostituzione di alcuni momenti essenziali della vita monastica svolti in comune comporta una suddivisione della giornata in cui si riducono i tempi individuali. Il lavoro si svolge nella comunità o al servizio della comunità, in quegli uffici non certo ambiti per prestigio o potere ma necessari per la riorganizzazione interna del monastero, come l’incarico di infermiera, cuciniera, refettoraria, panettiera, ortolana, vestiaria. Altri compiti godono di prestigio e potere: accanto alla badessa e alla vicaria si costituisce il consiglio delle discrete dove si cercano le segretarie, le maestre del lavoro e quelle “portinarie”, “ascoltatrici” e “ruotare” che tanta importanza avranno nelle relazioni della comunità con l’esterno.
Nuovi rapporti con il mondo esterno. Anche le norme che regolano l’accesso ai monasteri e ai colloqui al parlatorio contribuiscono a selezionare le reti di relazioni, che non devono più essere private: possono accedere ai monasteri soltanto quelle persone a cui è concessa licenza per motivi di parentela o d’ufficio; ai colloqui devono sempre presenziare le “ascoltatrici”; eventuali doni vanno consegnati alle “ruotare”. Oltre al progressivo restringersi delle persone che hanno accesso al monastero, altro momento essenziale che la clausura apporta al sistema di relazioni è il ruolo preminente assunto dagli ecclesiastici: confessori, predicatori e visitatori diventano una presenza costante non solo nei monasteri retti dai Regolari, dove l’istituzione ha quasi sempre assicurato una continuità di assistenza spirituale, ma anche nei conventi soggetti alla giurisdizione episcopale. E il ruolo degli ecclesiastici si fa tanto più rilevante quanto maggiore diventa in epoca post-tridentina l’attenzione all’istruzione religiosa, alla pratica sacramentale e devozionale all’interno del convento.
Una vita religiosa domestica. Quanto abbiamo detto non esclude che, dalla fine del Cinquecento, si sviluppi una massiccia devozionalità femminile che fa della casa la propria cella. In accordo con il processo di privatizzazione che riserva spazi femminili nelle dimore borghesi, sempre più ampia è la possibilità concessa alle donne di esercitare in casa quella pratica di orazione mentale e di contemplazione che un’alfabetizzazione diffusa non circoscrive più alle claustrali. Questo processo raggiunge la sua massima espressione nel secondo Seicento. Se in un primo tempo la vita religiosa femminile si identifica con il modello promosso dalla grande Teresa d’Avila, più tardi sarà la pratica devota francese il modello esemplare.
II. Profilo della religiosità post-tridentina
Nel quadro spirituale postridentino diventa prioritaria la cura dell’anima. Le norme conciliari raccomandano la frequenza sacramentale mensile e stabiliscono l’obbligo di mettere a disposizione delle monache un confessore straordinario per una maggiore libertà spirituale. Speciale attenzione viene posta nella scelta dei confessori, ruolo svolto soprattutto dai religiosi dei nuovi ordini dei chierici regolari o da frati riformati, come i Cappuccini.
Tutto ciò crea nei monasteri una certa unitarietà di indirizzo spirituale. A tale uniformità di prospettiva contribuiscono anche le letture consigliate per la meditazione individuale e per le “lezioni” comuni che vengono ripristinate durante i pasti e durante il lavoro.
Nei piccoli scaffali dei monasteri non mancano testi di densa sostanza teologica e ascetica. Per esempio, si trovano spesso le opere di Teresa d’Avila, i classici dell’ascetica ignaziana come i trattati di Granada, Loarte e Rodrìguez. Tra i Padri è citato soprattutto Agostino, mentre la tradizione medievale è attinta specialmente sul piano agiografico: vi compaiono vite di sante come Brigida e Caterina da Siena. C’è poi la massiccia presenza dei nuovi testi tridentini, soprattutto i catechismi. Se la letteratura dotta non è del tutto ignorata, ben più cospicuo e frequentato è il fiume di testi popolari ai quali si abbeverano anime semplici, indotte, senza particolari drammi religiosi, bisognose di una compagnia gratificante che non aggravi i pesi della vita quotidiana, ma sia capace di assecondare le tendenze emotive che affiorano nell’intimo. I molti libretti di pietà, opere di anonimi, di autori minimi o sconosciuti, hanno titoli significativi: “fascetto di mirra”, “giardino spirituale”, “affetti dell’anima”, “specchio religioso”, “il cristiano interiore”; esprimono una pietà semplice, povera di radici bibliche e patristiche.
Alcuni tra i testi più significativi.
L’«Esercizio di perfezione» di Alphonso Rodríguez. Compendio della nuova impostazione spirituale è il fortunato libro del gesuita spagnolo Alphonso Rodríguez (1538-1616), Esercizio di perfezione e di virtù cristiane. Composta per la formazione spirituali dei novizi gesuiti, l’opera appare per la prima volta nel 1606 ed è seguita da molte altre edizioni. Dopo l’Imitazione di Cristo, è uno dei testi più letti negli ultimi secoli. Rodríguez è più un pedagogo che un autore originale. Sotto un’apparenza di semplicità, l’opera mostra un buon equilibrio tra la Bibbia e i Padri da una parte, e la dottrina teologica, morale e canonica dall’altra, tra la teoria e la pratica, l’erudizione e la divulgazione, la profondità e la semplicità.
Il libro è suddiviso in tre parti. La prima, «su alcuni mezzi per conseguire la virtù e la perfezione», si articola in 8 capitoli: desiderio del progresso spirituale, perfezione delle azioni ordinarie, purezza delle intenzioni, unione e carità fraterna, orazione, presenza di Dio, esame di coscienza e conformità alla volontà di Dio. La seconda, «sull’esercizio di alcune virtù che riguardano tutti quelli che vogliono servire Dio», tratta di mortificazione, modestia e silenzio, tentazioni, amore disordinato per i parenti, tristezza e gioia, beni ricevuti da Cristo e meditazione dei misteri della sua Passione, comunione e sacrificio della Messa. La terza, sulle virtù proprie della vita religiosa, considera i voti, la povertà, la castità, l’obbedienza, l’osservanza delle regole, l’apertura di coscienza con i superiori, la correzione fraterna.
Le indicazioni offerte sono pervase di buon senso, riconducono gli slanci mistici alla realtà quotidiana, smorzano entusiasmi sconsiderati e utopici, e sollecitano con forza alla vera perfezione, espressa in termini di abnegazione e completo dono di sé. Il tutto è accompagnato da piacevoli citazioni patristiche e da esempi tratti da Cassiano, dalle Vitae patrum e dalle vite dei santi.
«La monaca perfetta» di Carlo Andrea Basso. L’opera di questo sacerdote milanese appare a Milano nel 1627. Riprende le esperienze pastorali e disciplinari di san Carlo e di Federico Borromeo; si tratteggia l’immagine della “monaca perfetta” che sta a cuore ai campioni di una Controriforma organizzata e devota; rappresenta il filo ideale che collega le generazioni post-tridentine a quelle dell’età barocca. L’analisi dei doveri della buona religiosa è qui organizzata in vari capitoli che illustrano i momenti principali della vita comunitaria del monastero. Vi ricorrono argomenti tradizionali come la tesi dell’inferiorità emotiva e fisica del sesso femminile o l’idea della maggiore tranquillità spirituale della monaca anche rispetto alla più felice delle maritate. Il monastero viene rappresentato come una società a sé stante, con leggi proprie. Emerge la preoccupazione di definire con chiarezza i comportamenti che qualificano la vita religiosa femminile come stato del tutto particolare.
«Il religioso pratico dell’uno e dell’altro sesso» di G. B. De Luca. Conosce una buona diffusione anche l’opera di Gian Battista De Luca, del 1679, che codifica una prassi ormai secolare. L’attenzione dell’autore si appunta soprattutto sull’osservanza della vita comune nel monastero: viene sconsigliato l’uso di mezzi rigorosi e violenti, poiché - osserva - «trattandosi di donne già in perpetuo imprigionate, non sono praticabili quei modi di terrore e di castigo che si praticano ne’ religiosi dell’altro sesso, con le carcerazioni, o mutazioni di stanza, o con la privazione del voto, e delle cariche». Traspare un clima nuovo, tipico della “svolta innocenziana” di fine Seicento.
«La religiosa in solitudine» di Pietro Pinamonti. Del 1695 è l’opera del gesuita Pietro Pinamonti, amico e compagno di Paolo Segneri; il libro verrà ristampato più volte e tradotto nelle principali lingue europee, pubblicato ancora nell’Ottocento. All’autore sta a cuore soprattutto la divulgazione della meditazione e dei metodi di orazione. Come nell’opera del Segneri Il Cristiano istruito, anche La religiosa in solitudine del Pinamonti si caratterizza per una fondamentale preoccupazione pedagogica. Pur restando in una condizione “separata”, più perfetta, la religiosa diventa un modello trasferibile, facilmente imitabile in ogni altro stato di vita, attraverso un lineare adattamento degli esercizi ignaziani a un ritiro di otto-dieci giorni, ricchi di meditazioni e di letture, soprattutto sulla vita di Cristo, e in particolare sulla sua Passione, evocata negli aspetti più teneri e affettivi. C’è poi il corollario di altre pratiche di pietà e atti di penitenza esteriore, dalla confessione alla comunione e alla partecipazione alla Messa, dalla preghiera frequente alla visita al SS.mo Sacramento, in un equilibrio tra un devozionismo spicciolo e il tentativo di ancorarlo all’orazione mentale, all’esame di coscienza, a sostanziose letture ascetiche e alla saggia guida del direttore spirituale.
«La vera sposa di Gesù Cristo cioè la monaca santa» di Alfonso Maria de’ Liguori. Anche questo testo, del 1760, ha l’obiettivo di fornire uno strumento «utile non solo per le religiose, e religiosi, ma anche per li secolari, mentre in essa trattasi della pratica delle virtù cristiane, che spettano a ogni stato di persone». Analizzate con discrezione, mortificazione interiore ed esteriore sono i capisaldi di un’etica e di una concezione religiosa che dal chiostro può agevolmente rifluire anche verso il mondo; si fa strada un ideale di perfezione calato nella pratica quotidiana e alla portata di tutti.
I nuovi modelli di santità.
I santi tridentini. Tra i modelli di perfezione cristiana ai quali ci si ispira nel periodo postridentino ci sono santi “antichi” che ottengono una rinnovata popolarità per la loro vicinanza a Cristo, primi fra tutti la Vergine Maria e san Giuseppe. La loro stretta relazione al Salvatore li rende particolarmente idonei a fungere da intercessori.
Dei “nuovi” santi, come quelli canonizzati o beatificati agli inizi del Seicento (per esempio Carlo Borromeo, Ignazio di Loyola, Filippo Neri, Francesco Saverio) viene sottolineato l’eroico impegno nella riforma della Chiesa. Non mancano le donne: per esempio, Teresa d’Avila, Maria Maddalena de’ Pazzi, Francesca Romana. La prima, che ha legato la sua fama soprattutto alla contemplazione e all’acceso misticismo, viene esaltata come riformatrice degli ordini religiosi femminili. La personalità e gli scritti della mistica di Avila esercitano un influsso enorme sulla spiritualità monastica femminile del tardo ‘500 e dell’intero ‘600.
Nello stesso periodo anche una religiosa italiana percorre le orme della grande spagnola e ottiene subito fama di santità: Maria Maddalena de’ Pazzi. Mistica e visionaria, ma tenace fautrice della riforma dei religiosi e della Chiesa, la santa fiorentina sembra incarnare in terra italiana il modello di santità teresiano: la riforma carmelitana iniziata in Spagna trova in Italia la sua continuazione.
Francesca Romana, sposa e madre, è indicata come esemplare nell’umiltà, nella pietà verso il prossimo, nella rinuncia alle prerogative del suo stato e nelle fondazioni religiose; insomma, assume un profilo molto simile alle “Dimesse” del Cinquecento. Le viene riconosciuta una grande determinazione nel perseguire una vita monastica riformata, con costituzioni più rigorose. Nel monastero costruito a Roma nel 1643 con l’aiuto del cardinal Barberini, dove trascorre i suoi ultimi anni, le celle sono così semplici e piccole, e le suppellettili così povere, da suscitare ammirazione in chiunque le veda. Testimoni oculari attestano che vi si fanno continue orazioni, si praticano penitenze e si osserva il silenzio con il massimo rigore.
Il modello di santità proposto alle monache. Ciò che accomuna queste esperienze è la considerazione devota della vita di Gesù e l’intima assimilazione al Cristo sofferente, l’apertura missionaria, la diffidenza verso le inclinazioni estatiche, la grande austerità, il continuo impegno di purificazione. Emerge un chiaro modello di santità proposto alle monache che si caratterizza per questi tratti: vocazione ricevuta fin dalla tenera età, separazione dal “mondo” e ingresso “in religione”, vita esemplare in totale obbedienza ai voti monastici e alla disciplina ecclesiale, fedele pratica dell’orazione mentale, consuetudine ad austere mortificazioni, intrepida dedizione al bene delle anime, esercizio in grado eroico delle virtù, specialmente l’umiltà. Tale ricerca di perfezione è spesso gratificata con doni straordinari di profezia, taumaturgia e discernimento spirituale.
La monaca come “sposa” di Cristo.
Ripresa di una consolidata tradizione. Nel secolo XVI la condizione della donna religiosa è definita in relazione al matrimonio, come “sposa” di Cristo. Fin dai primi secoli del cristianesimo, il proposito di verginità femminile viene confermato con una benedizione liturgica e con un rito di consacrazione verginale che negli elementi simbolici e nelle preghiere si ispira e rinvia a un patto nuziale.
In questo senso è significativa la Compagnia di sant’Orsola, fondata da sant’Angela Merici. Sorta con l’intento di rendere partecipi della vita religiosa le donne di umile origine che per mancanza di dote non possono accedere ai monasteri, la Compagnia si richiama alla tradizione della Chiesa primitiva ed elabora una forma di adesione all’istituto che ripristina in parte il rituale della consecratio virginum, da tempo caduto in disuso a favore della professione monastica. Anche più tardi, monache e vergini orsoline si riconosceranno nella comune metafora della sponsa Christi.
Sposa di Cristo crocifisso. Nella vita spirituale di questa epoca grande rilievo assume la contemplazione affettiva di Cristo sofferente: la sua Passione è ricreata con l’immaginazione secondo la successione dei “quadri" in cui la consuetudine articola e cerca di riattualizzare il suo svolgimento. Il registro “visivo”, “sensibile”, che caratterizza questo approccio alla figura di Gesù si riscontra ovunque: nei manuali di preghiera e di meditazione, negli scritti devozionali, nelle raccolte di prediche, nei sussidi per la vita liturgica. Le scene della Passione, prima fra tutte l’immagine del Crocifisso, dominano anche l’iconografia che in genere arricchisce la veste tipografica dei testi, sia come immagine isolata impressa sul frontespizio o all’interno dei volumi, sia, più raramente, traducendosi in un ciclo organico di commento visivo, finalizzato a incentivare il coinvolgimento emotivo con il messaggio scritto.
Sposa vergine. Non risultano in questo periodo riflessioni specifiche sulla verginità. I pochi trattati che presentano il tema rinviano ai testi dell’antica tradizione. Il valore religioso della vita verginale è assimilato al rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa o tra Cristo e l’anima. Se la verginità continua a essere considerata lo stato di maggior perfezione, il matrimonio assume carattere di esemplarità e di rilevanza nelle modalità delle relazioni: per quanto vergine, la sponsa Christi è soggetta a un’autorità maschile: il padre, il vescovo, il direttore spirituale. Sulla base di questo principio, per le religiose l’infrazione al voto di castità è punito come l’adulterio.
Sposa obbediente. Alla fine del sec. XVI l’obbedienza religiosa, che agli inizi del secolo veniva vista in prevalenza come espressione di perfezione dell’anima e di libertà spirituale, si configura ormai come una disciplina, anche fisica, delle passioni, del tutto simile a quella proposta da moralisti ed educatori per l’istituzione delle giovani donne, prima nella casa paterna, poi in quella del marito. Nonostante la superiorità della vita religiosa illustrata dai molti trattati per le monache, lo stato coniugale, grazie alla metafora del matrimonio mistico, diventa un modello esemplare per la disciplina monastica.
I mezzi per giungere alla santità.
L’orazione mentale. In un progetto di formazione spirituale che tende a plasmare una pietà solida, diffidente verso ogni illusione soggettiva, ma insieme perfettamente adattabile ai moti dell’anima, un posto di primo piano spetta all’esercizio dell’orazione mentale. Si tratta di un metodo per richiamare la presenza di Dio nella vita quotidiana, come componente decisiva negli atti, nelle mozioni affettive, nei momenti anche più banali degli impegni contingenti. L’orazione mentale è uno scavo metodico nel mistero di Dio, effettuato dall’intelligenza, dalla volontà e dal cuore. Gli scritti che ne trattano sono un fiume incontenibile.
L’esame di coscienza e la confessione. Un’altra pratica sulla quale confessori, direttori e scrittori spirituali ritornano continuamente è l’esame di coscienza, uno scandaglio interiore da fare tutti i giorni e perfino più volte al giorno, e per il quale vengono predisposte tecniche che testimoniano una scaltrita e sottile conoscenza dell’animo umano. L’esame di coscienza trova poi il suo sbocco nella confessione sacramentale, in cui sia il penitente che il confessore raddoppiano l’analisi dei sentimenti per discernere il buono e il cattivo, ed espellere quest’ultimo. Il cammino spirituale proposto sospinge quindi a una conoscenza sempre più ravvicinata dell’io nascosto.
L’impegno ascetico. Quando la clausura diventa la condizione normale della vita monastica, l’isolamento e la mortificazione acuiscono la sensibilità affettiva; e in molte religiose né l’impegno incessante nella preghiera e nel lavoro, né la repressione continua delle pulsioni interiori riescono ad annullare o a sublimare del tutto i ricordi, i desideri, i rimpianti. Tali sentimenti vengono anzi esaltati dalla solitudine e talvolta provocano stati d’animo che la mentalità corrente definisce illusioni, ossessioni o perfino possessioni maligne. Per liberarsi dal Nemico incombente e talora vicino a ghermire, non basta la disciplina quotidiana e insistita. Occorre domare più duramente il corpo, fonte di ogni tentazione, imponendogli veglie durante la notte, nel tempo cioè degli inganni e delle insidie più sottili, che la sensibilità dell’epoca popola di immagini di terrore e di raffinati strumenti salvifici; oppure bisogna sottoporre il corpo a prolungati periodi di astinenze e di digiuni, a penitenze iterate e a impietose flagellazioni praticate individualmente o in comune, o a quelle segrete torture che comportano l’uso del cilicio o delle camicie di crine.
Le devozioni. La vita spirituale di quelle religiose non è connotata soltanto da penitenze e mortificazioni del corpo; si ricercano anche le «sante dolcezze del Cielo», così definite dal linguaggio devoto dell’epoca. Una pietà “tenera”, “sensibile”, per usare una bella espressione coeva, accompagnata da un alto numero di preghiere e di atti devoti, rosari e giaculatorie, tridui e novene, realizzati con una contabilità attenta ed espressi in un linguaggio e con immagini appassionate, come quella che propone una fede simile al corallo il quale «sotto l’onde del mare è tenero come una pianta», ma «cavatone fuori a vista del cielo s’indurisce come una gemma». Si fa strada un modo nuovo di intendere la vita monastica: si passa dalle sommità eccezionali della mistica allo sforzo di acquisire una volontà solida, costruita attraverso un itinerario ascetico né aspro né solitario, ma fiducioso e rasserenante.
«Attivi nella contemplazione» e «contemplativi nell’azione».
Con il Concilio di Trento si avvia una modernizzazione dei ruoli ecclesiastici, anche femminili. Il fenomeno si può cogliere in due aspetti principali: in primo luogo, si impone il momento individuale, la decisione personale di essere credenti, la confessione, la decisione di coscienza; in secondo luogo, ci si orienta verso il mondo, ci si pone in relazione con il mondo, per plasmarlo mediante la “cura delle anime” e l’“apostolato” .
Più spazio per le donne. Alla fine del Cinquecento la Chiesa inizia ad assegnare alle donne maggior spazio nei compiti educativi e di evangelizzazione. Spesso sono proprio donne sposate, appartenenti per lo più ai ceti dirigenti, a sostenere i vari progetti di riforma, dalle istituzioni di assistenza alla fondazione di nuovi ordini religiosi. Per esempio, Ignazio di Loyola e i suoi collaboratori per fondare la Compagnia di Gesù possono contare sull’appoggio ideale e finanziario di alcune donne benestanti. Anche la diffusione dei Gesuiti in Italia è auspicata e favorita da benefattrici.
I monasteri, luoghi di educazione e di cultura. “Baluardi” spirituali contro il demonio, i monasteri assolvono anche specifiche funzioni sociali. Due in particolare sono gli ambiti di specializzazione dei monasteri: la musica, che conferisce dignità alla liturgia e alle celebrazioni religiose patronali, e l’insegnamento alle giovani donne del ceto aristocratico. Le monache si specializzano nella cultura musicale, dedicando molto del loro tempo e delle loro energie al canto e all’uso degli strumenti. È anche un modo per incrementare il prestigio del monastero e l’onore della città.
Legittimazione della scelta verginale “domestica”. Mentre con i loro monasteri le vergini claustrali offrono un “baluardo” contro le potenze del male, anche le vergini che vivono nelle proprie case iniziano a essere considerate di grande giovamento alla famiglia e alla Chiesa. Se i vescovi non possono e forse non vogliono estirpare il problema sociale delle monacazioni forzate, essi però aggirano l’ostacolo legittimando il celibato femminile. Nell’ultimo quarto del secolo XVI nessuna voce si leva più, come pochi decenni prima, a denunciare lo scandalo di una giovane ultraventicinquenne che vuole vivere in casa con la madre senza dover optare per il matrimonio o per il chiostro.
Le nuove forme dell’apostolato femminile. Un ambito in cui le donne, soprattutto quelle provenienti dalla borghesia, trovano il loro ruolo ecclesiastico, è la dottrina cristiana. A partire dalla metà del ‘500, prima in Italia e poi altrove, sorgono “società per la dottrina cristiana”, confraternite e associazioni i cui membri danno regolarmente lezioni di catechismo. Dal XVII secolo, questo insegnamento ai bambini viene collegato all’istruzione nelle materie fondamentali: leggere, scrivere e far di conto. Molte donne sposate si fanno carico del finanziamento e dell’organizzazione della dottrina cristiana; altre, spesso nubili o vedove, svolgono l’insegnamento vero e proprio. In questo ambito le donne assumono funzioni che le avvicinano molto all’attività di cura d’anime tipiche dei maschi: se non amministrano i sacramenti, curano però la preparazione a essi, soprattutto per l’Eucaristia e la Confessione, dimostrando spesso di ottenere maggiori successi degli uomini.
Almeno per quelle Orsoline che rinunciano ai voti solenni e alla clausura, la cura spirituale delle ragazze diventa la parte più importante del loro apostolato. La domenica, in raduni organizzati in modo simile alla catechesi per ragazzi, istruiscono le donne nella dottrina cristiana o le visitano a casa preparandole a ricevere i sacramenti. Anche nella Compagnia di sant’Orsola è evidente l’intento di non ritirarsi dietro le mura di un convento, ma di operare “nel mondo” con l’educazione e l’insegnamento.
La missione cristiana delle mogli e delle madri. Anche nel mondo cattolico, come in quello riformato, la moglie e la madre diventano titolari di un ruolo che assume una connotazione religiosa: sono loro a creare le basi per la retta fede dei figli e, in senso più ampio, degli altri membri della casa, dipendenti, parenti, ospiti. Possono e devono incidere sul proprio ambiente agendo da “missionarie”. Quanto sia forte la visione della moglie come ruolo femminile ecclesiastico, è documentabile sulla base sia della letteratura catechistica che delle prediche. Perfino la virtù dell’obbedienza che la moglie deve al marito, non è più giustificata con motivazioni ascetiche ma “missionarie”: le donne possono convertire i mariti privi di fede e riconquistarli alla Chiesa cattolica, “senza parole”, semplicemente con il loro comportamento obbediente e la loro condotta di vita santa. Le tradizionali virtù femminili, riservatezza, modestia, silenzio, vengono collegate all’apostolato, alla conversione e alla riconquista dei fedeli.
Conclusione.
La nuova caratterizzazione della vita religiosa femminile dopo il Concilio di Trento è ben illustrata in alcuni esempi emblematici. Ne indichiamo tre, corrispondenti a tre diverse situazioni geografiche: Teresa d’Avila e il suo Carmelo riformato in Spagna, Francesco di Sales e Giovanna de Chantal, fondatori dell’Ordine della Visitazione in Francia, e Maria Maddalena de’ Pazzi in Italia.
L’esempio del Carmelo riformato di Teresa d’Avila. Dopo il Concilio di Trento anche gli ordini contemplativi insistono nella volontà di fare “opere buone” e vogliono dedicarsi alla “salvezza delle anime”. Basti pensare al Carmelo riformato di Teresa d’Avila, vista da qualcuno con sospetto e perfino definita dal nunzio papale «una vagabonda inquieta, ritrosa e ostinata che ammantandosi di devozione inventa cattive dottrine, che si muove, contravvenendo alle direttive dei suoi superiori e del Tridentino, al di fuori della clausura, e insegna come un professore, benché l’apostolo Paolo abbia vietato alle donne un’attività pubblica di insegnamento».
Pur radicata nel misticismo spagnolo e sostenitrice di uno stile di vita monastico più rigido, Teresa privilegia l’amore per il prossimo, la “vita attiva”, la cura per la salvezza eterna soprattutto dei sacerdoti, di chi non conosce o rinnega la fede cristiana. Le «sorelle Maria e Marta», come dice lei, non sono divisibili; anzi, contemplazione e preghiera costituiscono il presupposto per le opere al servizio di Dio e del prossimo. Si riscontra qui l’unione tra una spiritualità interiorizzata e un orientamento attivo che desidera incidere sulla realtà esterna: sono due tratti tipici della sensibilità “moderna”.
Il discorso di Francesco di Sales alle Visitandine. Che agli inizi del Seicento l’apostolato femminile sia ormai una tendenza inarrestabile, lo dimostra un discorso di Francesco di Sales rivolto a un gruppo di Visitandine, pure obbligate alla clausura, in procinto di svolgere un “ufficio apostolico”, la fondazione di un altro loro convento. Sono parole che meritano di essere citate testualmente: «Tutto questo, mie carissime Sorelle, mi è sembrato bene dirvi sulla questione della vostra partenza; infatti sebbene voi non siate dotate della dignità apostolica a causa del vostro sesso, non di meno siete capaci dell’ufficio apostolico, per il merito apostolico […]. Voi potete rendere servizio a Dio in determinate maniere, e procurare l’accrescimento della sua gloria proprio come gli Apostoli. Mie care Figlie, ecco per voi un motivo di grande consolazione: vedere che egli si voglia servire della vostra persona per un’opera eccellente come quella alla quale siete chiamate; consideratevi grandemente onorate davanti alla divina Maestà. Infatti, cosa mai Dio desidera da voi se non ciò che ha ordinato ai suoi Apostoli, quando li ha inviati per il mondo? […] Allo stesso modo, mie care Figlie, avete ora ricevuto il comando di andare là, in diversi luoghi, per fare in modo che le anime abbiano la vita e la vivano in modo migliore: infatti, cosa vi accingete a fare se non a dar conoscenza della perfezione del vostro Istituto e, per mezzo di questa conoscenza, attirare molte ad accogliere tutte le “osservanze” che vi sono contenute? Ma, ditemi, pur senza predicare, conferire i Sacramenti e rimettere i peccati come hanno fatto gli Apostoli, questo non è donare la vita agli uomini? Può capitare che cento e cento fanciulle, sul vostro esempio, entreranno nell’Istituto; si sarebbero invece perdute se fossero rimaste nel mondo; invece andranno a gioire in Cielo della felicità eterna. Non è dunque per mezzo vostro che la vita viene così loro donata? Ma ancor più, non sarebbe per mezzo vostro che esse vivranno di una vita più perfetta e gradita a Dio, vita che le renderà più capaci di unirsi più intimamente alla divina Bontà, poiché riceveranno da voi le istruzioni necessarie per acquisire il vero e puro amore di Dio, cioè la vita più abbondante che Nostro Signore è venuto a portare agli uomini? […] O Dio, quale grazia è quella che Egli vi fa! Vi rende apostole, non nella dignità, ma nell’ufficio e nel merito. Voi non predicherete, dato che il vostro sesso non ve lo permette, benché santa Maddalena e santa Marta sua sorella l’abbiano fatto; ma non tralascerete di esercitate l’ufficio apostolico di far conoscere il vostro Istituto e il suo stile di vita, come ho appena detto» (Trattenimento XVI) . Al di là del modo nel quale Francesco di Sales si esprime in questa occasione - dove sembrerebbe che l’unico ufficio apostolico femminile possibile consista nella diffusione della vita conventuale -, è evidente il tentativo di inserire a pieno titolo le donne in quel progetto di rilancio missionario sorto dal Concilio di Trento. Lo mostrano l’enfasi sull’apostolato delle donne a imitazione di Gesù, la descrizione del loro «ufficio di apostoli» e del loro «merito di apostoli».
Maria Maddalena de’ Pazzi. Già nel periodo della sua infanzia, Caterina de’ Pazzi, nata a Firenze nel 1566, dà segni di propensione alla vita religiosa: gravità, prudenza e inclinazione alla solitudine inusuali per la sua età. Nell’adolescenza muove i suoi primi passi spirituali assimilando i tratti caratteristici dei Gesuiti, soprattutto l’assidua pratica eucaristica e la stretta osservanza di povertà e obbedienza. Convittrice nel monastero di San Giovannino, a Cortona, dove si trova la sua famiglia, vi introduce l’uso dei colloqui spirituali e la lettura in comune di libri devoti. Vinte le resistenze dei genitori, nel 1582 sceglie di abbracciare la vita monastica nel Carmelo di S. Maria degli Angeli con il nome di Maria Maddalena. Lì i Gesuiti hanno introdotto la comunione frequente, l’orazione mentale e l’esame di coscienza. La Regola di S. Maria degli Angeli prevede un lungo periodo di educazione, la lettura spirituale, la Comunione settimanale, l’Ufficio divino recitato in coro, la meditazione in comune come continuazione della preghiera corale.
A partire dal 1584 Maria Maddalena beneficia di grazie mistiche speciali che nella loro tipologia richiamano da vicino quelle vissute da Caterina da Siena e da Teresa d’Avila. Le consorelle trascrivono fedelmente i contenuti delle “rivelazioni” che ella riceve nei lunghi momenti estatici. In esse traspare un ardente desiderio di contribuire al rinnovamento spirituale della Chiesa e alla salvezza delle anime. A questo scopo scrive anche lettere di fuoco al papa Sisto V, a cardinali e vescovi, a sacerdoti e religiosi. Maria Maddalena si sente portatrice di una vocazione apostolica: la sua regola di vita, improntata allo sposalizio con Cristo, si traduce in una pratica di povertà e obbedienza, condotta da una comunità che si rifà a quella degli Apostoli e che è chiamata a vivere l’amore reciproco. Le spose condividono con gli apostoli la potenza conferita dal Verbo, e sono chiamate a sanare le infermità morali con la sequela della croce e l’offerta del proprio sangue.
Australia. In Belgio, la congregazione di Tildonk, fondata nel 1818 da Jean Lambertz, conobbe una notevole estensione. Alla morte del fondatore nel 1869, la congregazione contava già 43 case, non solo in Belgio, ma anche nei Paesi bassi, in Inghilterra, in Germania e in Indonesia. Esse si diffusero in seguito negli Stati Uniti, in Canada, in Africa del sud e in India.
I tempi forti d’espansione delle Orsoline si situano dunque ogni due secoli, al XVII e al XIX.
27 giugno 2014
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